Dati di Facebook in mani cinesi? Zuck ci casca ancora
A pochi mesi dallo scoppio dello scandalo Cambridge Analytica, Zuckerberg finisce ancora nel mirino della magistratura statunitense. Dati personali condivisi con la cinese Huawei. Che negli Usa è indagata per spionaggio. La nuova vicenda riapre la discussione sulla privacy, la cui tutela, nell'era dei social, è ancora mal compresa.
Il 6 giugno Facebook ha dichiarato di avere instaurato rapporti di partnership con quattro grandi società cinesi per la condivisione di dati utili alla definizione di prodotti. Tra queste società spunta anche Huawei, il terzo produttore mondiale di smartphone e colosso della telefonia, da sempre sotto la lente d’ingrandimento del bureau statunitense per problemi relativi alla sicurezza. Il social media per eccellenza avrebbe infatti affermato di aver venduto a circa 60 società in tutto il mondo dati utili a ricreare esperienze simili a Facebook all’interno dei servizi di queste società.
Il procuratore generale di New York Barbara Underwood avrebbe dichiarato illegale questa partnership, e inserito la documentazione relativa alla contrattazione all’interno dei fascicoli dello scandalo di Cambridge Analytica per l’impiego e la vendita di dati sensibili degli utenti di Facebook senza l’esplicito consenso degli utenti stessi. I legali di Zuckerberg avrebbero però negato i capi d’imputazione, ammettendo però di aver rilasciato alcuni dati relativi alle funzionalità degli account su dispositivi mobile.
A questo si aggiunga che la società di telecomunicazioni cinese è stata sottoposta all’esame dei funzionari d’intelligence statunitense per presunte azioni di spionaggio da parte dello Stato cinese volte a minacciare alcune infrastrutture americane. Una storia che va avanti addirittura dal 2012. Il senatore Mark Warner, vice presidente dell'Intelligence Committee, avrebbe dichiarato: «La notizia che Facebook ha fornito un accesso privilegiato alle API di Facebook ai produttori di dispositivi cinesi come Huawei e TCL solleva preoccupazioni legittime, e non vedo l'ora di saperne di più su come Facebook ha assicurato che le informazioni sui loro utenti non siano state inviate ai server cinesi».
A domanda risponde Francisco Varela, vice presidente di Facebook per le mobile partnership: «Facebook e molte altre società tecnologiche statunitensi hanno collaborato con Huawei, Lenovo, OPPO e TCL per integrare i loro servizi sui loro dispositivi. Queste integrazioni sono state controllate sin dall'inizio e abbiamo deciso che le informazioni relative agli utenti fossero archiviate direttamente sul dispositivo, non sui server di Huawei». Di fatto, quindi, i problemi relativi alla privacy si risolverebbero senza l’accumulo dei dati stessi in “pancia” a Huawei, ma limitandoli al singolo device.
Ad aprile, la Federal Communications Commission aveva proposto nuove regole per vietare gli acquisti di programmi governativi da parte di aziende che possano rappresentano una minaccia per la sicurezza delle reti di telecomunicazione statunitensi. Una mossa che voleva mettere all’angolo Huawei e ZTE Corp, il secondo produttore di dispositivi per le telecomunicazioni in Cina. A maggio il Pentagono aveva ordinato che nei punti vendita delle basi militari statunitensi si smettesse di vendere telefoni Huawei e ZTE, citando potenziali rischi per la sicurezza delle operazioni.
Un articolo del New York Times avrebbe ampliato il panorama delle potenziali partnership di Facebook anche a società come Apple, Blackberry, Microsoft e Samsung, cui è seguita la domanda a Zuckerberg, da parte della Federal Trade Commission, se volesse ritrattare la testimonianza che ha dato davanti al Senato in aprile (proprio per il caso di Cambridge Analytica), Zuckerberg, pur avendo dichiarato la più totale disponibilità a rispondere alle domande del Congresso, non ha però ancora stabilito “quando” tale chiarimento avverrà.
Ciò che impressiona, in questa storia, non è la possibilità che effettivamente i dati di Zuckerberg siano passati tra mani cinesi. È tuttavia sconfortante notare come, ogni volta che si parli di privacy sui dati degli utenti nel digitale, si scoperchia sempre un vaso di Pandora pieno di incomprensioni e mezze verità. Le quali, più che identificare una - sia pur possibile - mancata buona fede da parte di tutti gli attori coinvolti nella vicenda, si possono tradurre in una incompetenza generale a far fronte alle tematiche di privacy sul piano legale. La regolamentazione della privacy, in pratica, ha bisogno di tempo perché si maturi in una chiara e ben definita policy che non lasci spazio all’opinabilità. E, su questo, è Zuckerberg che deve darsi da fare. Almeno, prima di finire per essere identificato come l’unico colpevole.