Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Cristo Re a cura di Ermes Dovico
L’AVVENTURA DEL VIAGGIO/11

Dante e i simoniaci, comicità sull'avidità dei Papi

Proprio il Papa del Giubileo verrà collocato ante litteram tra i simoniaci nel canto XIX. Il Papa non è ancora morto al momento dell’ambientazione della Commedia. Il poeta utilizza allora un escamotage per poterlo condannare ad ogni modo: fa sì che un altro dannato profetizzi l’arrivo del papa.

Cultura 18_08_2013
Simoniaci

Nell’Inferno Dante utilizza sia il registro tragico che quello comico. Le tragedie dantesche sono rappresentate dalle storie dei grandi personaggi, Francesca da Polenta, Pier della Vigna, Ulisse, il conte Ugolino della Gherardesca. Tutti ricorderanno i versi tombali che concludono i loro lunghi monologhi: «Quel giorno più non vi leggemmo avante» (Francesca), «Poscia, più che il dolor, poté il digiuno» (conte Ugolino), «Infin che 'l mar fu sovra noi richiuso» (Ulisse), «ciascuno al prun de l’ombra sua molesta» (Pier della Vigna). Il registro alto e tragico ben si adatta a quei personaggi dannati che il poeta stima, in qualche modo, perché eroici per la loro virtù.

Nell’Inferno la dimensione del comico è molto presente, nelle sue differenti sfaccettature, dal comico puro al grottesco, dalla satira alla parodia. Manca l’umorismo, che tende ad abbracciare e a comprendere (ricordiamoci l’esempio di Pirandello riguardo alla donna anziana, tutta imbellettata). E ne capiamo bene le ragioni. I dannati sono ormai fissati in una condizione definitiva, che non può più essere redenta. Hanno perso la dimensione tragicomica dell’umano (espressione pirandelliana per designare l’aspetto umoristico di ogni uomo sulla Terra), la multiforme e mutevole condizione esistenziale e di loro rimangono solo il peccato a cui hanno aderito e il male compiuto.

Il cerchio ottavo di Malebolge è spesso raffigurato in chiave comica. Basti pensare al cerchio dei barattieri. Alla conclusione del canto XXI Dante si era lasciato andare ad espressioni scurrili. I diavoli usano come segnale di battaglia al posto della tromba il sedere («Ed elli avea del cul fatto trombetta»). Del resto Dante era stato accusato di baratteria quando era ambasciatore presso il Papa Bonifacio VIII e per questa falsa accusa sarebbe rimasto in esilio fino alla morte.

Proprio il Papa del Giubileo verrà collocato ante litteram tra i simoniaci nel canto XIX. Il Papa non è ancora morto al momento dell’ambientazione della Commedia (marzo o aprile del 1300). Il poeta utilizza allora un escamotage per poterlo condannare ad ogni modo: fa sì che un altro dannato profetizzi l’arrivo del papa, una volta morto. Ma facciamo qualche passo indietro per capire meglio il contesto. Il canto si apre con l’invettiva di Dante auctor contro i simoniaci: «O Simon mago, o miseri seguaci/ che le cose di Dio, che di bontate/  deon essere spose, e voi rapaci/ per oro e per argento avolterate,/ or convien che per voi suoni la tromba,/ però che ne la terza bolgia state». Gravissima è la loro colpa, perché hanno approfittato della loro posizione e delle cariche ricoperte per arricchirsi.

Raccapricciante è lo scenario che appare a Dante dall’alto del ponte che sovrasta la bolgia: «Io vidi per le coste e per lo fondo/ piena la pietra livida di fóri,/ d'un largo tutti e ciascun era tondo». Le anime sono collocate a testa in giù, soltanto le estremità delle gambe fuoriescono dai fori. Le piante dei piedi sono infuocate come quando il fuoco si propaga da una superficie oleosa. A questo punto compare una delle poche annotazioni biografiche della Commedia, molto utile anche per datare la composizione dell’opera. I fori del fondo della bolgia sono, infatti, paragonati al fonte battesimale che Dante ruppe pochi anni addietro per salvare un bimbo che era sfuggito alle mani del sacerdote che lo stava battezzando: «Non mi parean men ampi né maggiori/ che que' che son nel mio bel San Giovanni,/fatti per loco d'i battezzatori;/ l'un de li quali, ancor non è molt' anni,/ rupp' io per un che dentro v'annegava:/ e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni». Vedendo un dannato che muove le gambe con maggior vigore rispetto agli altri, Dante ne chiede ragione al maestro. Poi, scende lungo i pendii della bolgia, si avvicina all’anima e le rivolge la parola: «O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,/ anima trista come pal commessa»,/ comincia' io a dir, «se puoi, fa motto».

In questa scena avviene il ribaltamento parodistico della realtà. Davanti ad un Papa, Niccolò III, Dante appare lui «come 'l frate che confessa/ lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,/ richiama lui per che la morte cessa». Nella scenetta teatrale il Papa è divenuto l’assassino che deve confessare il nome del mandante se vuole evitare la pena della propagginazione cui è condannato. Non sapendo chi sia l’anima di colui che lo invita a parlare, Niccolò III (sul soglio pontificio dal 1277 al 1280) crede che sia già giunto il dannato che è destinato a sospingerlo giù nel foro e a rimanere con le gambe in fuori. Così esclama: «Se' tu già costì ritto,/ se' tu già costì ritto, Bonifazio?/ Di parecchi anni mi mentì lo scritto./ Se' tu sì tosto di quell' aver sazio/ per lo qual non temesti tòrre a 'nganno/ la bella donna, e poi di farne strazio?». Il genio di Dante colloca così tra i simoniaci Bonifacio VIII che sarebbe morto solo nel 1303 e che, all’epoca dell’ambientazione del viaggio, non poteva già trovarsi all’Inferno. Sappiamo che i dannati della Commedia dantesca hanno la facoltà di conoscere il futuro (non quello imminente). Per questo Niccolò III sa dallo scritto del futuro che Bonifacio VIII giungerà all’Inferno nel 1303. La comicità della scena è accresciuta dalla distanza tra il Dante auctor che crea la situazione e si vendica nei confronti di uno degli artefici del suo esilio e il Dante viator che, ignaro di tutto, se ne rimane come coloro che «quasi scornati, […] risponder non sanno» e si fa suggerire le risposte dal maestro. Virgilio subito lo dirige: «Dilli tosto:/ “Non son colui, non son colui che credi”». Ossequio e obbedienza del sommo poeta lo inducono ad agire come gli «fu imposto».

Niccolò si presenta a sua volta obbedendo alle richieste di Dante che ha faticato a scendere per il pendio della bolgia per conoscere l’identità dell’anima. Le sue parole non sono scevre di comicità e di autoironia: «veramente fui figliuol de l'orsa,/ cupido sì per avanzar li orsatti,/ che sù l'avere e qui me misi in borsa». Poi il dannato profetizza l’arrivo prima di Bonifacio VIII e poi di Clemente V (sul soglio pontificio dal 1305 al 1314), il Papa responsabile dell’inizio della cattività avignonese per la Curia romana, «un pastor sanza legge», «nuovo Iasón sarà, di cui si legge/ ne' Maccabei». A questo punto, Dante inizia un vero e proprio improperium nei confronti del Papa, attenuato solo (a sentir lui) dalla riverenza che ancora conserva nei confronti della carica. Ricorda a Niccolò III che Gesù non ha mai chiesto denari ai suoi discepoli, ma solo la disponibilità a seguirlo. Allo stesso modo gli apostoli quando scelsero Mattia per sostituire Giuda non gli chiesero oro o argento.

L’avidità degli uomini di chiesa troppo spesso «il mondo attrista,/ calcando i buoni e sollevando i pravi». Nell’Apocalisse Giovanni l’Evangelista aveva previsto la corruzione del clero quando «colei che siede sopra l'acque/puttaneggiar coi regi a lui fu vista». L’inizio della deviazione della chiesa dalla diritta strada è da Dante fatta risalire alla donazione di Costantino. Il Papa non può che ascoltare le note cantate da Dante con rabbia, senza far motto, ma muovendo le gambe ancor con più foga, mentre Virgilio con gioia e lieto sembiante ascolta le rampogne mosse dal discepolo.