Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Brigida di Svezia a cura di Ermes Dovico

IL CASO

Dall'Istria un siluro a Benedetto XVI

Il vescovo di Parenzo-Pola, Ivan Milovan, rifiuta la consegna di un monastero ai benedettini di Praglia e denuncia il Papa.

Attualità 03_08_2011
monastero daila
«Roma locuta, causa finita». Questa citazione dai Sermones di Sant’Agostino un tempo significava che dopo una decisione presa dalla Santa Sede su una particolare questione, essa doveva considerarsi definitivamente chiusa. Nella Chiesa di oggi questo non vale più, neppure presso un episcopato, quale quello croato, in passato considerato tra i più fedeli al Santo Padre. Protagonista di questa storia di aperta ribellione al Papa è il vescovo di Parenzo-Pola, Istria, mons. Ivan Milovan.
Questi non ha accettato la decisione della Santa Sede, frutto dei lavori di una Commissione composta da tre membri cui faceva parte anche l'arcivescovo di Zagabria, cardinal Josip Bozanic, di risolvere in favore dei benedettini di Praglia (Padova) una disputa tra questi ultimi e la diocesi di Parenzo-Pola circa la proprietà dell'ex-abbazia benedettina e di 380 ettari circostanti siti nei comuni della parrocchia di Daila, tra Cittanova e Verteneglio. Il vescovo non ha voluto controfirmare il provvedimento, obbligando il Papa a sospenderlo temporaneamente dalle sue funzioni e ad affidare la firma al vescovo spagnolo Santos Abril y Castello, ex nunzio apostolico in Serbia e Slovenia, attualmente vice-camerlengo di Santa Romana Chiesa.

L’abbazia e i terreni circostanti erano stati confiscati ai benedettini italiani nell’ambito del processo di nazionalizzazione attuato dal 1945 dal regime comunista jugoslavo ai danni di tutte le persone fisiche e soggetti giuridici, in particolar modo dei “nemici del popolo”, quale era considerata la Chiesa cattolica, e tendente a eliminare la proprietà privata. Con la dissoluzione della Jugoslavia e la formazione, negli anni Novanta del secolo scorso, dei nuovi Stati sovrani retti da un sistema democratico-parlamentare, fu deciso - come del resto anche nelle altre giovani democrazie dell’Est europeo - di restituire ai legittimi proprietari tutti i beni privati che erano stati loro sottratti per diventare proprietà sociale. In Croazia ciò avvenne con l’approvazione della Legge sulla compensazione per le proprietà espropriate ai tempi della forma di governo comunista jugoslava, entrata in vigore il 1° gennaio 1997.

La diocesi di Parenzo-Pola afferma che la decisione della Santa Sede è errata nella sostanza, in quanto i benedettini di Praglia non sarebbero stati proprietari, ma solamente usufruttuari dell’abbazia e dei terreni circostanti, che appartenevano al conte Francesco Grisoni. Lasciando l’abbazia nel 1948, i benedettini italiani avrebbero perso il diritto di usufrutto di questi beni, che secondo il lascito testamentario del conte Grisoni sarebbero passati a una pia istituzione costituita a tale scopo, e in mancanza di essa, secondo il Codice di Diritto Canonico, alla diocesi locale.
Inoltre, sempre secondo la diocesi istriana, i benedettini di Paglia non avrebbero diritto a ricevere questi beni in quanto essi sarebbero già stati indennizzati per la loro perdita a seguito dei trattati di Osimo e di Roma, con i quali erano state regolate le pendenze rimaste in sospeso tra Italia e Jugoslavia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un’eventuale nuova assegnazione dei beni ai benedettini italiani violerebbe quindi questi accordi internazionali, la legge croata e le decisioni dei tribunali croati che avevano già respinto ogni richiesta dei religiosi.

La diocesi inoltre lamenta che la restituzione in toto dei beni è impossibile, essendo parte di questi già stata venduta, e il risarcimento ai benedettini stabilito in caso di mancata restituzione, circa 5 milioni di euro, trascinerebbe la diocesi stessa alla bancarotta.

Ieri la Sala stampa della Santa Sede ha diffuso un comunicato sulla vicenda, definita “di natura prettamente ecclesiastica”, ripercorrendo la vicenda fin dall’istituzione della commissione di cui sopra nel 2004. La Santa Sede afferma di aver sempre tenuto in debito conto le posizioni della diocesi di Parenzo-Pola, il cui vescovo viene però ritenuto responsabile di aver rifiutato qualsiasi accordo, anche con “azioni unilaterali”. La decisione della Santa Sede - dice ancora il comunicato - “mira esclusivamente a ristabilire la giustizia dentro la Chiesa”, per cui dispiace che la vicenda sia “strumentalizzata a fini che cercano di presentarla in chiave politica e demagogica, come se intendesse danneggiare la Croazia“.

Aldilà delle ragioni nella disputa è proprio quest'ultimo aspetto lamentato dalla Santa Sede che rende la vicenda scandalosa, per la Chiesa, e pericolosa, per i risvolti politici che sta prendendo.
E’ infatti già indecorosoe fonte di scandalo che una diocesi e un ordine religioso si combattano pubblicamente ormai da anni a colpi di carte bollate, davanti ai tribunali civili e alla Santa Sede, per dei beni destinati, data la loro prossimità al mare, a essere venduti a caro prezzo per crearvi strutture di turismo di lusso, e quindi essere fonte di lauto guadagno per il venditore.

E il protagonista in negativo di questi giorni è proprio monsignor Milovan. Non contento di avere platealmente rifiutato l’obbedienza al Papa, il vescovo ha dato in pasto il conflitto all’opinione pubblica istriana e croata, già di per sé mal disposte verso il Papa e la Chiesa, e basterebbe visitare in questi giorni i forum su Internet per trovarli pieni di insulti irripetibili nei confronti di Benedetto XVI. Così una venale contesa interna alla Chiesa su questioni di proprietà di terreni ha assunto il carattere di crisi internazionale tra la Croazia, la Santa Sede e, suo malgrado, l’Italia. Volendo infatti sfruttare l’insofferenza che regna nel Paese per il fatto che i principali beni strategici croati – le banche e le principali industrie in precedenza di proprietà dello Stato – sono finite nella quasi totalità in mano a stranieri, dalla diocesi si è sottolineata con disappunto la nazionalità dei beneficiari, così che questa decisione della Santa Sede è finita per apparire a vantaggio “degli italiani”, con il concreto rischio che subiscano la stessa sorte altri beni ecclesiastici siti in Dalmazia e un tempo proprietà di soggetti religiosi italiani.

Incredibile a dirsi, da qui si è subito giunti a vedere in questo fatto un tentativo di cedere l’Istria e la Dalmazia all’Italia, sentimento del quale si sono fatti interpreti il Presidente della regione istriana, Ivan Jakovcic, nonché l’ex presidente croato Stjepan Mesic, il quale, nel tono sguaiato che gli è consueto, ha affermato che la questione è frutto di «pretese territoriali italiane mascherate da motivi religiosi».

Anche dal vescovo monsignor Milovan e dai suoi più stretti collaboratori sono giunti toni e affermazioni sopra le righe e indegne delle posizioni che essi occupano. Il cancelliere della diocesi di Parenzo-Pola e parroco di Daila, Ilija Jakovljevic, ha dichiarato che il fatto di dovere pagare l’eventuale somma dovuta ai benedettini rappresentati dall’ente croato Abbazia d.o.o. (in Croazia fino a pochi anni fa gli italiani potevano acquistare immobili solo attraverso una società locale), con sede a Pola ma con conto corrente bancario in Germania, «puzza di riciclaggio di denaro sporco». La diocesi ha denunciato il Papa e la Santa Sede alla Procura Generale in quanto, come già detto in precedenza, essa ritiene che la decisione in favore dei benedettini contravvenga alle leggi dello Stato e ai trattati di Osimo e Roma. Il vescovo di Pola-Parenzo si è inoltre incontrato con la premier Jadranka Kosor e il Presidente della Repubblica Ivo Josipovic per chiedere loro di intervenire in favore della diocesi presso la Santa Sede. Che un vescovo cattolico denunci il Papa e la Santa Sede alla magistratura e chieda protezione alle autorità dello Stato contro il Papa stesso è un fatto a dir poco inaudito.

L’aspetto tragico della vicenda è che questa abbazia rappresenta una memoria storica della sofferenza della popolazione italiana e più in generale della Chiesa cattolica sotto il regime comunista jugoslavo alla fine della Seconda guerra mondiale. Come scrive infatti  "La Voce del popolo", quotidiano della minoranza italiana in Istria e nel Quarnero, «la parte triste della storia è che gli ultimi monaci presenti a Daila (…) vennero deportati, imprigionati e processati con (false?) accuse da parte del regime jugoslavo. Vennero condannati ai lavori forzati per sfruttamento, contrabbando, appropriazioni indebite e altre accuse che, suppongono molti, avevano il solo scopo di sottrarre ai monaci i possedimenti per nazionalizzarli, ma soprattutto per annientare il ricordo del loro operato a favore del prossimo».

I cattolici croati assistono sbigottiti a un conflitto aperto tra un loro vescovo e la Santa Sede, tanto più che esso è causato da venali motivi di interesse. Questi sono i frutti amari del fatto che un po’ ovunque, troppo spesso sacerdoti e vescovi si improvvisano manager aziendali e uomini d'affari, dimenticando la natura della loro missione sacerdotale di pastori delle anime, e provocando spesso danni irreparabili ai beni delle comunità e istituzioni loro affidate.

Per quanto riguarda in particolare la Slovenia e la Croazia, si può dire che le leggi di restituzione dei beni sottratti al tempo del comunismo, delle quali la Chiesa cattolica e le sue istituzioni hanno abbondantemente beneficiato, abbiano rappresentato una vera e propria maledizione per queste Chiese locali. Abituate a vivere per quasi mezzo secolo nella ristrettezza, nell’indigenza e nella costante persecuzione da parte del regime comunista – forse proprio per questo motivo esse rappresentavano una fulgida testimonianza di vita cristiana -, all’improvviso si sono ritrovate ricche di una notevole quantità di beni e abbondanti finanziamenti dello Stato, scoprendo di non essere capaci ad amministrarli e lasciandosi fagocitare da una mentalità capitalistica che è diametralmente opposta alle esigenze del Vangelo.

E’ avvenuto così che a Maribor, in Slovenia, la locale diocesi abbia pensato di investire le enormi ricchezze derivanti dalle restituzioni dei beni confiscati gettandosi a capofitto nel mondo della finanza e dell’imprenditoria, costituendo tra l’altro una banca, holding finanziarie, società immobiliari, partecipazioni in un gran numero di società e un’impresa di telecomunicazioni che si occupava di Internet, telefonia mobile e di trasmissioni televisive via cavo (nell’offerta di quest’ultimo segmento erano inclusi anche film pornografici). Il fallimento della banca, della società di telecomunicazioni e della galassia di attività che gravitava attorno a esse, ha provocato un buco di 800 milioni di euro, mettendo sul lastrico migliaia di fedeli che in buona fede avevano investito denaro in queste aziende di proprietà della Chiesa, e portando la diocesi al fallimento.

Lo stesso avviene in Croazia, dove i giornali riportano spesso scandali di natura finanziaria e perdite di denaro a causa di cattivi investimenti da parte di soggetti ecclesiali. La recente costruzione a Zagabria di una nuova e fantasmagorica sede della Conferenza Episcopale croata, in buona parte finanziata dalla Conferenza Episcopale italiana (in questo caso gli "italiani” sono stati bene accetti, in quanto generosi elargitori di denaro), ha provocato molte perplessità tra il popolo cattolico croato in questo periodo di crisi e di difficoltà della maggior parte della popolazione, tanto che non pochi parroci hanno segnalato l’improvvisa diminuzione della raccolta di denaro delle questue domenicali.