Dalle Ferrovie all'Inps: tutte le trappole pronte per Renzi
Il premier Renzi, pur avendo puntellato la sua maggioranza con l’innesto di nuovi senatori e messe in porto riforme epocali, si mostra invece incapace di consolidare e allargare la sua “rete” di collaboratori fidati, sia nei ruoli di ministro sia ai vertici delle società partecipate e degli enti pubblici di nomina governativa.
Matteo Renzi si avvicina al suo secondo anno di governo ma sembra ancora lontano dalla seconda fase del suo ciclo politico. Si è detto da più parti che la sua ascesa a Palazzo Chigi era avvenuta con il supporto dei fedelissimi e che soltanto di questi l’attuale premier si fidava. Il cosiddetto “cerchio magico” avrebbe dovuto lentamente includere nei meccanismi di gestione del potere altri uomini di fiducia, da individuare al di fuori del “club” ristrettissimo dei fiorentini e dei toscani doc, tra personalità competenti, di spessore e di alto prestigio.
E sembrava che nella tornata di nomine fatte l’anno scorso ci fossero chiari segnali in questo senso, con l’investitura di soggetti non strettamente etichettabili come “renziani”, ma indubbiamente in sintonia con le scelte del governo. A distanza di mesi, il presidente del Consiglio, pur avendo puntellato la sua maggioranza con l’innesto di nuovi senatori (quelli verdiniani) e pur essendo riuscito dove altri prima di lui avevano fallito (condurre in porto riforme epocali come il Jobs Act e, più ancora, il Nuovo Senato, ormai prossimo all’approvazione definitiva), si mostra incapace di consolidare e allargare la sua “rete” di collaboratori fidati, sia nei ruoli di ministro sia ai vertici delle società partecipate e degli enti pubblici di nomina governativa.
Gli scricchiolii nel suo esecutivo si sono sentiti soprattutto quando Graziano Delrio è stato di fatto “declassato”, con il trasferimento al ministero delle Infrastrutture. Da possibile “nuovo Gianni Letta”, tessitore delle trame decisive di Palazzo Chigi, a responsabile di un dicastero, si’ strategico, ma non di primissimo piano come potrebbero essere gli Interni o gli Esteri. Ora si vocifera che lo stesso ex sindaco di Reggio Emilia possa rappresentare la vera alternativa a Renzi come segretario del Pd espressione della minoranza interna, visto che da tempo i dissidenti dem puntano a sfiancare il presidente del Consiglio, nella speranza di costringerlo a lasciare la guida del partito.
Altri ministri come Andrea Orlando, responsabile del dicastero della Giustizia, non hanno perso occasioni per marcare la distanza dalla linea di Palazzo Chigi, per esempio a proposito della vicenda De Luca. Per non dire di Dario Franceschini, sempre più silente al ministero dei Beni Culturali, ma, secondo i bene informati, non più allineato al pensiero renziano. Forse con un rimpasto il premier riuscirà a tenere unita la compagine governativa e a rilanciarne l’azione, ma intanto deve fronteggiare l’ennesima patata bollente riguardante una società partecipata: le Ferrovie dello Stato. Palazzo Chigi ha chiesto e ottenuto le dimissioni in blocco degli attuali vertici, che si erano dimostrati assai litigiosi e inconcludenti sul tema della privatizzazione.
A condurre in Borsa le Ferrovie dello Stato sarà, dunque, un nuovo gruppo dirigente, ma va detto che i dimissionari Michele Elia e Marcello Messori, rispettivamente amministratore delegato e presidente, erano stati nominati nel maggio 2014 dal governo Renzi come espressione della rottamazione del passato e del completo rinnovamento. Sembra un dejà vu. Anche per quanto riguarda l’Agenzia delle Entrate si è registrata nei giorni scorsi una più o meno velata sconfessione governativa delle scelte fatte soltanto un anno prima dall’esecutivo Renzi. Il braccio di ferro tra il direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi, nominata nel giugno 2014, e il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, ha messo a nudo la crescente insofferenza del governo verso la gestione della Orlandi.
All’Inps il presidente Tito Boeri è in sella dal febbraio 2015 e a designarlo è stato il Consiglio dei ministri. Eppure le sue ultime dichiarazioni mostrano una crescente divergenza di strategia rispetto a quella immaginata dal governo Renzi in materia di pensioni e sistema previdenziale. La mappa del “potere renziano” mostra numerose falle anche in periferia. Il radicamento sul territorio del ceto politico espressione della linea filogovernativa non è dei migliori e le avvincenti e incerte dispute sulla designazione dei candidati sindaci nelle principali città italiane, da Milano a Roma, da Napoli a Torino e Bologna, la dice lunga sulle difficoltà che il premier sta incontrando nel piegare le resistenze locali, soprattutto all’interno del suo partito.
Queste difficoltà dovrebbero persuaderlo circa la necessità di aprire davvero la seconda fase del suo ciclo politico, quella decisamente più inclusiva e meno autoreferenziale, aperta con sincerità alla società civile e a nuovi apporti esterni alla cerchia ristretta dei suoi fedelissimi. Non è pensabile che Renzi possa durare degli anni al governo seguitando nell’autarchia attuale, che si nutre di una positiva azione di governo ma anche di diffidenza nei confronti di tutto ciò che non presenti fin da subito il timbro della fedeltà e della supina acquiescenza ai suoi voleri.