Dal Regno Unito, un altro schiaffo della realtà alla "scienza"
La Gran Bretagna riapre, i morti non aumentano. Anzi, i casi di contagio, nonostante la variante Delta, diminuiscono di giorno in giorno da una settimana di fila. È l’ultimo schiaffo della realtà alle previsioni degli “esperti”. Che, guarda caso, sbagliano sempre per eccesso di pessimismo, condizionando tutte le scelte politiche dei governi.
La Gran Bretagna riapre, i morti non aumentano. Anzi, i casi di contagio, nonostante la variante Delta, diminuiscono di giorno in giorno da una settimana di fila. E’ l’ultimo schiaffo della realtà alle previsioni degli “esperti”, degli analisti di dati che, con le loro proiezioni, condizionano da un anno e mezzo l’attività di tutti i governi europei.
In tutto il Regno Unito i nuovi casi confermati di Covid, il 28 luglio, sono stati 31mila, pari a 443 ogni milione di abitanti. Il 21 luglio, all’indomani del Freedom Day, quando il governo Johnson ha deciso di rimuovere tutte le restrizioni e di lasciare liberi i suoi cittadini, i casi erano 48mila, pari a 702 ogni milione di abitanti. Che cosa dicevano gli esperti? I consiglieri del governo prevedevano, all’indomani delle riaperture, un’impennata fino a 100mila casi al giorno. Neil Ferguson, dell’Imperial College, a capo della Consiglio Scientifico del governo e ormai celebre per le sue previsioni apocalittiche, non escludeva i 200mila casi confermati al giorno. James Naismith, direttore del Rosalind Franklin Institute dell’Università di Oxford, ammette candidamente: «molti scienziati, me compreso, prevedono che la fine del lockdown porti a un aumento dei casi. Ad ogni modo, ci siamo sbagliati in passato e ci sbaglieremo in futuro, solo i ciarlatani sostengono di essere onniscienti».
E’ vero, solo degli scienziati ciarlatani sostengono di essere onniscienti. E non dobbiamo neppure escludere che Ferguson e gli altri autori di pessimistiche previsioni possano avere ancora ragione: la prima settimana dopo le riaperture è andata bene, ma le prossime potrebbero registrare anche una nuova impennata di contagi. Ma proprio per questo dovremmo seriamente riflettere sul ruolo che abbiamo dato alla scienza, intesa come “autorità del parere degli scienziati” più che come metodo. La politica si è consegnata nelle mani della scienza. Ragionamenti come “chiudere o aprire le attività dipende dalla curva dei contagi e non dalla nostra volontà” sono tipici di questo ultimo anno e mezzo. Questo vuol dire che ci siamo affidati a delle previsioni basate a loro volta su modelli matematici tutt’altro che perfetti. Già gli esempi di previsioni errate si sprecano. Come quelle sul numero dei morti che ci sarebbero stati in Svezia senza lockdown: 6 volte tanto rispetto al numero reale dei decessi. O i 510mila morti in un anno che Ferguson stesso aveva previsto per il Regno Unito nel 2020, quasi 4 volte tanto il numero reale dei morti per Covid. E nel nostro piccolo, ricordiamoci cosa si prevedeva dopo le riaperture di maggio, nel primo anno di pandemia: 151mila italiani sarebbero dovuti finire in terapia intensiva nei soli primi due mesi estivi, quando invece si è registrato un calo drastico di ricoveri.
Se è vero che i modelli matematici sbagliano previsioni, è evidente, però, una qual certa predisposizione a sbagliare per eccesso di catastrofismo. Non c’è mai stata una volta, dall’inizio della pandemia, in cui la realtà abbia superato in peggio la previsione. Il motivo di questo pessimismo metodologico potrebbe essere anche psicologico e politico. Psicologico prima di tutto: sbagliare una previsione eccessivamente ottimistica è peggio, alla prova dei fatti. La colpa della tragedia sarà addossata a chi non l’aveva saputa prevedere. Ma c’è indubbiamente anche un aspetto politico, come dimostra l’episodio in cui, nella primavera del 2020, il governo tedesco aveva chiesto al Koch Institute di studiare soprattutto lo scenario peggiore possibile. È lecito sospettare che pressioni di questo genere vi siano state anche in tutti gli altri governi che poi hanno applicato misure draconiane contro la circolazione del virus. Anche per il politico, così come per lo scienziato, essere eccessivamente prudenti è meglio che essere eccessivamente ottimisti. Specialmente se la “prudenza” consiste nell’aumentare il controllo del governo sulla società, entro lunghissimi stati emergenziali.
Un terzo fattore da tener presente, oltre alla psicologia e alla politica, è quello mediatico, soprattutto nella prima pandemia della storia seguita tutti i giorni in diretta dai media e dai social media. I media tendono, da sempre, a ingigantire la tragedia e a pubblicizzare le previsioni negative (d’altra parte è la vecchia regola good news, no news). Ma in questo caso entra in scena anche molta politica e tanta ideologia. Non è un caso che ad essere al centro della notizia, quando c’è da fare una polemica su come la pandemia viene gestita o una previsione pessimistica, ci sono sempre realtà politicamente scorrette. Fa notizia il virus quando si diffonde fra gli ebrei ortodossi o altri gruppi religiosi chiusi, non quando viene trasmesso quotidianamente negli ospedali pubblici. Il contagio nelle case di riposo, private, fa invece notizia. Fa titolo l’aumento dei contagi nel Regno Unito (Brexit), in Brasile (Bolsonaro), negli Usa (solo finché c’era Trump), fino a teorizzare, come è giunto a fare Le Monde, che i contagi aumentano soprattutto sotto i governi sovranisti (dimenticando volutamente Belgio, Italia, Spagna…). Ha fatto scandalo la Svezia che, pur avendo un governo di sinistra, non ha applicato il lockdown, caso pressoché unico nell’Unione Europea. E nei due mesi scorsi, faceva scandalo il governo conservatore britannico che annunciava le riaperture: già lo accusavano di cinismo con titoli come quelli del Corriere della Sera del 6 luglio: “Perché Johnson ha deciso di riaprire tutto (nonostante la Delta e i contagi in aumento)” con il sottotitolo virgolettato del premier “Avremo altri morti, ma dobbiamo farlo”.
E, appunto, quando pensiamo di consegnare le nostre decisioni “alla scienza”, dobbiamo ricordare che sono inevitabili i pregiudizi degli scienziati, dettati dalla politica, dalla psicologia e dall’agenda dei media.