Dai capricci alla santità, la vita di Giacinta Marescotti
Al secolo Clarice, figlia di un conte, entrò in convento dopo una delusione amorosa. Per anni visse nelle frivolezze, non curandosi dello stato di consacrata. Nella malattia scoprì Dio. Di lì chiese perdono alle consorelle, iniziò una vita di preghiera e privazioni, dedicandosi ai poveri e agli ammalati. E con il suo esempio attrasse alla fede molti che ne erano lontani.
LA RICETTA: PANZANELLA VITERBESE
Viterbo, 30 gennaio 1640, chiesa delle Clarisse. Una bara semplice di legno grezzo è aperta e una lunga fila di persone avanza con lentezza, in modo che ognuno si possa fermare davanti alla salma esposta, per… tagliare un pezzetto di vestito. Suor Angelica, che sta seduta su una sedia vicino alla bara per vegliare la consorella, sta pensando con stizza che dovrà rivestirla, per la terza volta. Perché dalla mattina di quel giorno freddo di gennaio aveva già rivestito la deceduta per ben due volte: la gente si portava via un pezzo di tessuto come reliquia.
Suor Angelica gira la testa e guarda il viso della consorella Giacinta: è rilassato, quasi sorridente. Si chiede che cosa avrà visto prima della morte, per essere così contenta. Sente perfino una punta di invidia e si fa il segno della croce, chiedendo mentalmente perdono a Dio. Riflette un attimo sulla morta: suor Giacinta era ancora viva ieri, era venuto il padre confessore per darle l’estrema unzione. E oggi è lì, in quella bara; apparentemente felice.
Angelica ricordava ancora quel giorno lontano in cui Giacinta era arrivata al convento: era scesa da una carrozza elegante, che recava le armi di famiglia sulle portiere. Aveva guardato con aria un po’ schifata la cella che le era stata assegnata e aveva dichiarato subito che non sarebbe stata lì. Si era scelta due celle più grandi, situate una di fronte all’altra e nella settimana che era seguita al suo arrivo le aveva arredate con mobili preziosi, creandosi un appartamento tutto suo. Suor Angelica ricordava pure il giorno in cui Giacinta pretese un frutto sconosciuto, chiamato pomodoro, che aveva voluto a tutti i costi aggiungere nella panzanella. La suora economa aveva messo del tempo per trovarlo e finalmente la panzanella preparata a quel modo era piaciuta a tutte, ma suor Angelica non poteva dimenticare i capricci di Giacinta.
Da quel giorno ne era passata di acqua sotto i ponti e Giacinta era pian piano diventata una religiosa degna di questo nome, caritatevole e piena di devozione: certo, era una delle conversioni più spettacolari alle quali suor Angelica avesse mai assistito nella sua lunga vita.
Giacinta, al secolo Clarice Marescotti, era nata a Vignanello, nel 1585, in una famiglia nobile molto importante, la seconda di tre figlie: bella, ricca e frivola. Il padre era il conte di Vignanello e non nascondeva la preoccupazione per questa figlia che non faceva altro che pensare alle feste, ai divertimenti e a trovare un marito degno di lei. Ma i piani di Dio non coincidevano con quelli della ragazza. Innamorata (respinta) del giovane e affascinante marchese Capizucchi, che le preferì la sorella minore Ortensia, la povera Clarice accettò la proposta del padre di entrare in convento, pur non perdonando al genitore di avere facilitato il fidanzamento della sorella con il bel marchese.
Quindi, con il cuore a pezzi, approdò al monastero di San Bernardino a Viterbo, dove aveva studiato da piccola e dove si era già fatta suora la sorella maggiore Ginevra. Qui prese il nome Giacinta e fece voto di castità; si fece terziaria francescana per non sottostare alla clausura. Rifiutò in blocco i voti di povertà e di ubbidienza. Si era portata bauli pieni di abiti eleganti e raffinati che non esitava ad indossare per la Messa, i Vespri e gi altri momenti di preghiera della comunità. Scontenta dell’angusta cella che le era stata messa a disposizione, si fece appunto arredare un appartamentino con mobili pregiati, portati dal castello paterno. La superiora la lasciò fare: non le era mai successa una cosa del genere e la famiglia Marescotti era un grande appoggio per il monastero. Il conte era molto generoso e sosteneva le spese più importanti - tra riparazioni, riscaldamento e approvvigionamento - permettendo alle sorelle di prodigare cure e carità ai poveri. E poi, si disse, se son rose fioriranno. E le rose fiorirono, oltre ogni aspettativa. Ma dopo una decina d’anni.
Giacinta si ammalò gravemente nel 1615. Era nella sofferenza della malattia: spaventata al pensiero di poter morire e non vedere più questo mondo che amava tanto, Giacinta scoprì Dio e la Sua infinita pazienza e bontà. “O Dio, ti supplico, dai un senso alla mia vita, dammi la speranza, dammi la salvezza!”, pregava. E guarì, ma non solo nel corpo. La sua anima aveva trovato la propria collocazione, nella santità terrena. Chiese perdono alle consorelle per la sua superficialità e rinunciò a tutto ciò che aveva.
Passò i successivi 24 anni della sua vita nelle privazioni e si dedicò con tutto il cuore al prossimo, specialmente ai poveri e agli ammalati. Grazie all’aiuto finanziario degli amici di un tempo, dalla clausura riuscì a organizzare l’operato di due istituti assistenziali: i Sacconi (così chiamati per il sacco che indossavano i confratelli durante il loro servizio), infermieri che davano aiuto ai malati, e gli Oblati di Maria, che portavano conforto alle persone anziane e abbandonate. Lei stessa donava tutto quel che riceveva ai poveri e il suo esempio fece ritornare alla fede anche molti che se ne erano allontanati.
Furono anni di grandi grazie per Giacinta. Contrastò il giansenismo nelle sue terre, con stimoli all’amore e all’adorazione per il sacramento eucaristico. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1640 (aveva quasi 55 anni), tutta Viterbo corse alla chiesa dov’era esposta la salma. Resterà a Viterbo per sempre, nella chiesa del monastero delle Clarisse, distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale e ricostruita nel 1959. Fu beatificata da papa Benedetto XIII nel 1726 e proclamata santa da papa Pio VII nel 1807. La sua festa cade il 30 gennaio.
La sua storia ci insegna che Dio, creatore di tutte le cose, visibili e invisibili, veglia su di noi, anche quando non Lo vogliamo nella nostra vita. Aiuta il seme della fede a germinare e a crescere nell’anima e ci regala speranza. Come ha fatto con Giacinta, una ragazza frivola diventata santa. Perché le cose non sono sempre come sembrano.