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MEDIO ORIENTE

Da Trump un'offerta di accordo che l'Iran non può rifiutare

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Sabato si terranno i primi colloqui diretti fra Usa e Iran. Così promette Trump al premier israeliano Netanyahu. Intanto nel Golfo si accumulano forze Usa, nel caso i colloqui andassero male.

Esteri 09_04_2025
Trump e Netanyahu di nuovo a colloquio (La Presse)

Sabato si terranno i primi colloqui diretti fra Usa e Iran. Così, almeno, ha promesso il presidente americano Donald Trump al premier israeliano Benjamin Netanyahu, per la seconda volta alla Casa Bianca dall’inizio dell’anno.

La frequenza delle visite di Netanyahu già è segno di quanto Israele e il Medio Oriente siano al centro dell’attenzione del presidente americano. Contrariamente alle aspettative iniziali (per quei pochi che ottimisticamente ci credevano) la tregua a Gaza è fallita e la guerra è ripresa. L’inviato speciale degli Usa per il Medio Oriente, l’imprenditore Steve Witkoff, si dice deluso da Hamas che ha tradito le sue promesse. Da quando sono ricominciati i combattimenti nella Striscia, gli Usa hanno dato carta bianca a Israele. Sono ormai passati i tempi dell’amministrazione Biden che poneva vincoli ad ogni singola azione di Gerusalemme. Per Trump, Israele può e deve procedere con l’eradicazione di Hamas da Gaza, almeno finché non verrà raggiunto un nuovo accordo, da posizioni di forza, per la liberazione degli ostaggi. Per il dopoguerra, Trump ribadisce la sua intenzione: ricostruzione completa di Gaza e controllo americano, previo “allontanamento” della popolazione in altri paesi. Obiettivi facili a dirsi, ma pressoché impossibili da realizzare, prima di tutto perché presuppongono una resa totale di Hamas e la disponibilità (che già non c’è) dei paesi arabi a collaborare incondizionatamente, anche accogliendo due milioni di palestinesi di Gaza. È dal 1948 che, per principio o per motivi di sicurezza, i paesi arabi non accolgono i palestinesi.

Ma non c’è alcun nodo mediorientale che possa essere sciolto senza passare dall’Iran. Il regime islamico appoggia Hamas, Hezbollah, le milizie sciite irachene e soprattutto gli Houthi nello Yemen che bloccano il traffico navale nel Mar Rosso. Nei confronti dell’Iran, Trump sta conducendo la sua consueta politica del “bastone e carota”.

Il bastone, per ora, lo sta usando sugli Houthi. Nel nome della libertà di navigazione, ha iniziato dal secondo mese della sua amministrazione, a bombardarli quasi quotidianamente nello Yemen. I risultati dei raid aerei, come durante l’amministrazione Biden, sono militarmente poco visibili. A parte l’eliminazione di arsenali, basi e l’uccisione di comandanti locali, l’azione degli Houthi non sembra aver subito una battuta d’arresto, come si deduce dai missili che lanciano fino a Israele. La guerra, per questo, potrebbe avere anche un fronte di terra: sarebbe l’esercito regolare yemenita, con l’appoggio dei sauditi e degli americani a dover sloggiare i guerriglieri sciiti dalle loro basi, a partire dal porto di Hodeida. Ma è ancora un’ipotesi, operazioni di terra sono ancora di là da venire.  

La “carota” è riservata all’Iran. Trump promette negoziati diretti bilaterali in un terreno neutrale, il sultanato dell’Oman, paese del Golfo confinante con lo Yemen. Anzi, nei colloqui con Netanyahu, il presidente americano ha dichiarato che colloqui diretti con la controparte iraniana sono già iniziati. La richiesta del premier israeliano è netta: si deve raggiungere diplomaticamente l’obiettivo che si potrebbe raggiungere solo con una guerra, cioè l’eliminazione totale del programma nucleare iraniano. Israele ha fretta perché l’intelligence stima (e anche l’Agenzia Onu per l’energia atomica conferma) che il programma iraniano sia molto avanzato. La finestra di opportunità per agire si sta chiudendo: al massimo entro l’estate si deve raggiungere un risultato definitivo. O si arriva a un accordo o Israele potrebbe intervenire militarmente contro gli impianti nucleari iraniani. Trump non ha specificato gli obiettivi a cui mira nei prossimi colloqui di sabato con gli iraniani, ma ha comunque rassicurato la controparte israeliana che l’accordo finale sarà molto più duro rispetto al Jcpoa, o accordo di Vienna, quello stipulato da Barack Obama con Teheran nel 2015. Quello da cui Trump ha ritirato gli Usa nel corso del suo primo mandato.

Che ci sia fretta di arrivare a un risultato traspare anche dallo spostamento di forze aero-navali imponenti americane nell’area del Golfo. Nel Mare Arabico sono arrivate due task force di portaerei, nella base di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano sono affluiti i bombardieri strategici invisibili B-2 e i paesi alleati, che potrebbero essere esposti a un’eventuale rappresaglia iraniana, sono stati muniti di difese anti-missile, con batterie di Patriot e Thaad. Dunque, se i negoziati dovessero fallire, le pedine sono pronte per un attacco contro l’Iran, parrebbe di capire, anche dal linguaggio bellicoso usato da Trump: «Se le due parti non dovessero raggiungere un accordo ci saranno conseguenze molto gravi».

Ma gli iraniani cosa dicono? Confermano che l’incontro con gli Usa ci sarà, ma si tratterà di “colloqui indiretti”, dunque tramite un paese mediatore. Ma è quel che Trump cerca di evitare, proprio per non allungare i tempi e non veder fallire nuovamente i negoziati come è avvenuto regolarmente nei quattro anni di amministrazione Biden.