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MEDIO ORIENTE

Da Gerusalemme dilaga la rivolta musulmana

Dopo Gerusalemme, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e le città arabe nel nord di Israele, adesso la violenza dilaga anche oltre il confine, con un attentato all'ambasciata israeliana di Amman, nel luogo della possibile mediazione. Mediazione difficile, perché a guidare la rivolta musulmana, stavolta, è direttamente il Waqf, l'autorità religiosa che amministra le moschee.

Esteri 24_07_2017
Il premier Netanyahu rende omaggio alle vittime di Halamish

Dopo Gerusalemme, dopo gli insediamenti in Cisgiordania, dopo le città arabe del nord di Israele, adesso è la volta di Amman. Non solo non si ferma, ma continua ogni giorno a estendersi l'ondata di violenza innescata dalla crisi intorno alla Spianata delle Moschee/Monte del Tempio a Gerusalemme.

L'ultimo episodio, ieri sera, è stato appunto un attacco all'ambasciata israeliana in Giordania, il luogo simbolo di quello che avrebbe dovuto essere il canale per stemperare le tensioni intorno alla Città Santa. La dinamica dell'episodio non è ancora chiara, anche perché tanto il governo israeliano quanto quello di Amman per alcune ore non hanno fornito alcuna informazione in proposito. Ma da quanto riferito da alcuni testimoni presenti sul posto un cittadino giordano - che pare stesse effettuando nel tardo pomeriggio una consegna all'ambasciata - si sarebbe scagliato con un coltello contro una guardia israeliana, ferendola in maniera molto grave, prima di venire a sua volta ucciso.

Accanto a questo episodio, poi, anche ieri al tramonto vi sono stati duri scontri a Gerusalemme, come avviene ormai da tre giorni, mentre i musulmani vanno avanti nel loro boicottaggio dei metal detector, con la preghiera che anziché sulla Spianata viene tenuta cinque volte al giorno nelle strade subito fuori dalla Porta dei Leoni, uno dei più importanti accessi alla Città Vecchia. Ieri, però, in Israele è stato anche il giorno dei funerali delle tre vittime della strage di Halamish, gli israeliani sgozzati in casa da un palestinese infiltratosi nel loro insediamento in Cisgiordania per «vendicare» l'oltraggio ad al Aqsa. Una strage connotata anch'essa di significati religiosi: l'attentatore ha infatti colpito una famiglia riunita per la cena dello shabbat, che per gli ebrei osservanti è un vero e proprio rituale che continua quello della sinagoga. Sui quotidiani locali ieri campeggiava la foto del lago di sangue lasciato nella cucina di quella casa e il premier Netanyahu ha colto l'occasione per ripetere che Israele non si farà intimorire «e continuerà a costruire la sua terra».

Queste parole hanno fatto seguito ai raid con i quali sono stati effettuati una serie di arresti di leader locali legati ad Hamas, il gruppo islamista che a caldo si era congratulato con l'autore della strage. Ma è stata più che altro una misura adottata da Netanyahu per la propria opinione pubblica: il movimento islamista sta infatti cercando di cavalcare la rivolta, ma non ne è affatto il motore. Il ruolo di primo piano stavolta lo hanno assunto direttamente i religiosi del Waqf, l'ente musulmano che amministra le moschee: stanno emergendo come una leadership locale per gli arabi di Gerusalemme. Anche per questo, dietro le quinte anche sotto la spinta della comunità internazionale, si cerca comunque una difficile mediazione per provare - almeno ora - a far scendere la tensione. In questo senso proprio il governo della Giordania - scavalcato appena pochi giorni fa - resta l'unico interlocutore realisticamente possibile oggi per il governo israeliano. Un interlocutore che tra l'altro, ancora l'altra sera, lanciava via Twitter segnali di disponibilità, attraverso il suo ministro degli Esteri.

Le posizioni però restano distanti: una prima proposta di sostituire i contestati metal detector con delle telecamere di sicurezza è stata respinta al mittente. Il problema non è infatti il singolo strumento, ma la definizione di chi lo controlla. Ed è il punto evidentemente più delicato, perché entra in gioco la questione della sovranità, che è poi il punto su cui nessuna delle due parti oggi vuole perdere la faccia. Senza però un accordo che veda pienamente riconosciuto un ruolo di garanzia per Amman, l'ondata di violenza non può che continuare a propagarsi ulteriormente.

Si capisce allora la profonda preoccupazione di papa Francesco, che riflette anche il sentimento delle comunità cristiane della Terra Santa. Ieri all'Angelus il Pontefice ha lanciato un appello «alla moderazione e al dialogo», insieme all'invito rivolto anche ai cristiani alla preghiera affinché «il Signore ispiri a tutti propositi di riconciliazione e di pace». Un richiamo, in fondo, al motivo per cui - in qualsiasi luogo e in ogni momento - ogni credente dovrebbe pregare. Che è poi ciò che nella Gerusalemme abbandonata nelle mani di ha fede solo nella violenza e nella legge del più forte oggi manca di più.