Custodire Cristo, l'esempio di Giuseppe
La figura di san Giuseppe è stata al centro dell'omelia pronunciata da papa Francesco nella messa di inizio pontificato. Richiamo al riconoscimento del disegno di Dio inscritto nella natura. Giuseppe è un modello di apertura ai segni di Dio, «disponibile al Suo progetto» e tenendo Cristo al centro di tutto.
- Il testo dell'omelia
- MESSORI: In continuità con Ratzinger
- Ora il gregge non ha più paura
L'inizio di un pontificato è sempre una grande festa, ed è normale che la stampa si concentri sulle luci, i colori, i gesti di Piazza San Pietro. È però sempre essenziale ascoltare la parola del Papa per entrare davvero nel suo Magistero. Da questo primo solenne intervento emergono tre spunti. Il primo è il richiamo a un «disegno di Dio iscritto nella natura», che può e anzi deve essere riconosciuto e rispettato anche dai non cristiani e dai non credenti, proprio perché può essere conosciuto semplicemente guardando alla natura. Il secondo è l'ammonimento secondo cui sono all'opera oggi, come sempre nella storia, nuovi «Erode» che, non volendo riconoscere tale disegno di Dio iscritto nella natura, «tramano disegni di morte». Il terzo passaggio, che già emerge come tipico di Papa Francesco dagli interventi di questi primi giorni, è che siamo in una fase della storia in cui anche le cose più semplici e più piccole, quelle che rendono gli uomini umani, non possono più essere date per scontate. Ecco allora il richiamo alle piccole cose, alla bontà, alla tenerezza, all'amicizia, alla solidarietà con chi soffre e chi è povero, alle prime e più elementari relazioni. Anche queste oggi sono da ricostruire, prima di affrontare i problemi più grandi. E la figura semplice e grande di san Giuseppe ci aiuta in questa ricostruzione.
Nell'omelia per la Santa Messa di inizio del suo ministero petrino, il 19 marzo, il Papa ha ricordato che la festa di san Giuseppe «è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore», Joseph Ratzinger, cui ha espresso «affetto e riconoscenza». Dopo questo delicato pensiero per Benedetto XVI e il saluto alle numerosissime autorità presenti, venute da tutto il mondo, Papa Francesco ha concentrato la sua omelia sulla figura di san Giuseppe.
Si legge nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Di Giuseppe si possono dire molte cose, ma egli è «essenzialmente custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II [1920-2005)», di cui Papa Francesco ha citato l'esortazione apostolica «Redemptoris custos» del 1989, una pietra miliare della dottrina della Chiesa su san Giuseppe.
Giuseppe esercita la sua funzione di «custos» «con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende». Lo sposo di Maria sta di fronte a Dio «aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio». Si ripete l'esperienza di Davide, evocata nella prima lettura della Messa: «Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito». Giuseppe ci mostra «come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza» e tenendo Gesù Cristo al centro di tutto. La formula che il Pontefice ha usato è «custodire Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato».
La vocazione alla custodia, e il dovere della custodia, degli altri e del creato ci vengono dalla fede e - secondo una lezione di Benedetto XVI, che Papa Francesco ha però declinato con un originale accento francescano - ci vengono anche dalla ragione. Nessuno potrebbe dunque sottrarsi a questo dovere affermando di non essere credente. Infatti «la vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti». Universale è «il rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo». Universale «è il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene».
Sembrano affermazioni molto semplici. Ma purtroppo non possiamo più darle per scontate. Occorre ricostruire anche le relazioni più elementari. Perché purtroppo oggi spesso «l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire», così che «trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce». La storia di Erode non appartiene solo al remoto passato. «In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli "Erode" che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna».
C'è un «disegno di Dio iscritto nella natura» che s'impone a credenti e non credenti. Rifiutare questo disegno dissemina nel mondo «segni di distruzione e di morte». E il rispetto del disegno di Dio inizia, per ciascuno di noi, da se stesso: «per "custodire" dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono!».
Riecheggiando il famoso «Non abbiate paura» del beato Giovanni Paolo II, Papa Francesco ha confermato quella che sembra una specificità di questo suo primo Magistero: ripartire dalle cose più semplici, che oggi non sono più evidenti come forse erano un tempo: «Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!». L'uso di quest'ultima espressione, «tenerezza», potrebbe sembrare sentimentale. Ma il Pontefice lo spiega, contro ogni possibile equivoco: «nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!».
Fortezza e tenerezza vanno insieme anche quando si tratta di capire quale «potere» Gesù Cristo ha dato al Papa, Successore di Pietro. Certo l'essere Vescovo di Roma «comporta anche un potere». «Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta?». Fin dalla chiamata dell'apostolo Pietro il potere del Pontefice ha una dimensione di servizio, e «anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli». «Solo chi serve con amore sa custodire!».
Nella seconda lettura della Messa san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Emerge qui un altro grande tratto della figura di san Giuseppe, la speranza. «Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza». Custodire «con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio». Risplende dunque oggi su Roma e su tutta la Chiesa «la stella della speranza». Il compito di «custodire» ripartendo dalle verità più semplici è anzitutto del Papa. Ma coinvolge tutti noi.