Cuore di tenebra. Il genocidio del Ruanda 20 anni dopo
Sono trascorsi 20 anni da uno dei più gravi genocidi del Novecento: 1 milione di Tutsi fu sterminato in Ruanda in soli tre mesi di violenza estrema. Un crimine sconcertante, che fu alla base delle successive tragedie africane.
Ricorre quest’anno il ventennale di uno degli episodi più tragici della recente storia umana. Il 7 aprile del 1994 iniziava in Rwanda una carneficina senza precedenti, organizzata e compiuta dagli Hutu, l’etnia al potere, decisi a sterminare la seconda etnia del paese, i Tutsi. Nei 100 giorni successivi da 500.000 a 1.000.000 di persone furono uccise: stando ai dati del censimento svolto dal governo ruandese nel 2001, 937.000, pari a circa il 20% della popolazione. Il numero delle vittime e la ferocia delle stragi sono state tali da aprire nel cuore del continente africano una ferita che ancora non si è rimarginata.
Tutto ebbe inizio il 6 aprile quando l’aereo su cui viaggia il presidente rwandese Juvénal Habyarimana, un Hutu, insieme al presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, venne abbattuto da un missile pochi minuti prima di atterrare all’aeroporto della capitale Kigali. Insieme alla notizia della morte del presidente, si sparse subito la voce che autori dell’attentato fossero gli estremisti Tutsi.
Il massacro dei Tutsi incominciò quella notte stessa. Il genocidio fu l’atto finale di una lunga e cruenta guerra civile. Nel 1959, tre anni prima di ottenere l’indipendenza dal Belgio, gli Hutu erano diventati l’etnia dominante. Da allora le tensioni tra Tutsi e Hutu, rispettivamente il 15% e l’84% della popolazione (il restante 1% è costituito dai pigmei Twa), erano andate crescendo. Le persecuzioni di cui erano periodicamente vittime, avevano indotto centinaia di migliaia di Tutsi a cercare scampo oltre confine, soprattutto in Burundi e in Uganda dove nel 1987 avevano fondato il Fronte patriottico ruandese, Fpr.
A far maturare il progetto genocida furono gli Accordi di Arusha del 1993, firmati dal governo e dall’Fpr dopo lunghe trattative mediate dalla comunità internazionale. Prevedevano la partecipazione dell’Fpr a un governo di unità nazionale: per molti Hutu una prospettiva inaccettabile. “Potere Hutu”, l’ideologia degli estremisti Hutu, era riuscita a diffondere la convinzione che l’Fpr intendesse restaurare la monarchia Tutsi precoloniale e ridurre gli Hutu in schiavitù. Gli estremisti sostenevano che, durante i negoziati svoltisi ad Arusha, il presidente Habyarimana si era lasciato manipolare dai Tutsi e dagli Hutu moderati.
La furia genocida degli Hutu dapprima si rivolse contro le personalità di spicco Tutsi e i leader politici Hutu moderati. Poi iniziò il massacro indiscriminato dei Tutsi. Dappertutto la polizia, i militari, gli Interahamwe e gli Impuzamugambi, le due milizie addestrate ed equipaggiate dal governo, eressero dei posti di blocco dove la popolazione era costretta a esibire i documenti indicanti l’etnia di appartenenza.
Radio Mille Colline, l’emittente più popolare del paese, ebbe un ruolo importante nel preparare il terreno al genocidio e, dal 7 aprile al luglio del 1994, nell’istigare all’odio razziale e al massacro. «Dovete impegnarvi di più – incitavano i conduttori dei programmi – le tombe non sono ancora piene. Dobbiamo riuscire a sterminare questa brutta razza di gente… dobbiamo farla finita con i Tutsi, sterminarli, spazzarli via da tutto il paese… non devono avere scampo, nessuno di loro… devono essere sterminati, non c’è alternativa… li dovete uccidere, sono degli scarafaggi… usate le armi che avete a disposizione, chi ha delle frecce, usi le frecce, chi ha delle lance, usi quelle… qualsiasi strumento tradizionale va bene…». Ben presto moltissimi civili Hutu si unirono alle forze militari e paramilitari nella caccia ai Tutsi. Muniti di machete, bastoni e altre armi incominciarono a violentare, mutilare e uccidere i vicini di casa Tutsi, a distruggerne i beni o ad appropriarsene.
La reazione dell’Fpr non si fece attendere. I suoi combattenti, ben addestrati e armati negli anni precedenti in Uganda, guidati da Paul Kagame si impadronirono del nord del paese e avanzarono verso la capitale che cadde nelle loro mani il 4 luglio. A metà dello stesso mese, gli Hutu erano del tutto sconfitti e il genocidio ebbe termine.
Allora, temendo a ragione la vendetta Tutsi, circa 2,3 milioni di Hutu fuggirono nei paesi vicini: Burundi, Tanzania, Uganda e Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo). In sole 24 ore, tra il 28 e il 29 agosto, 250.000 persone attraversarono il ponte sulle cascate Rusuni per raggiungere Ngare, in Tanzania. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, fu l’esodo di profughi più imponente e rapido dei tempi moderni.
In Zaire la comunità internazionale allestì uno dei programmi umanitari più vasti mai creati. Entro la fine di agosto, i profughi Hutu erano ospitati in 35 campi: cinque, immensi, nei pressi di Goma, capitale della provincia del Nord Kivu, accolsero circa 850.000 persone; 30, attorno a Bukavu e a Uvira, nel Sud Kivu, diedero rifugio a 650.000 persone. Altri 270.000 profughi furono sistemati in nove campi in Burundi e 570.000 in otto campi in Tanzania. Ma, come sarebbe apparso presto evidente, gli estremisti Hutu avevano solo spostato il terreno d’azione.