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NEONATI ABBANDONATI

Culle per la vita, dove il bambino può essere accolto

La cronaca ha riportato all’attenzione il dramma dell’abbandono dei neonati, che spesso scaturisce nella loro morte. Ma per evitare questo ci sono alternative, di cui i media parlano poco, come il parto in anonimato, previsto dalla legge, e le culle per la vita. Una sessantina in tutta Italia, estremamente attrezzate.

Attualità 22_11_2020

Con i drammatici fatti accaduti nelle scorse settimane prima a Ragusa, dove un neonato è stato trovato in un sacchetto della spazzatura, poi nella periferia di Trapani, dove una giovane madre, strappato il cordone ombelicale, pare abbia gettato via il figlio, ancora nella placenta, dalla finestra del quinto piano di un residence, si è riproposto con urgenza all’attenzione di ciascuno un fenomeno di cui si parla poco ma, purtroppo, mai del tutto superato: quello appunto dell’abbandono dei neonati, che non di rado giunge perfino alla loro uccisione.

Ora, anche se tanti e soprattutto tante ne sono ancora all’oscuro - e gli stessi media non riservano al tema la visibilità che merita -, esistono più alternative per evitare che il termine di una gravidanza indesiderata possa sfociare in abbandono o violenza a danno del soggetto più debole, il neonato. La prima alternativa si chiama «parto in anonimato» ed è esplicitamente disciplinata dal Dpr 396 del 2000, art. 30; essa si sostanzia nella possibilità che la donna possa senza alcuna forma di riconoscimento lasciare presso la struttura ospedaliera il bambino appena partorito, il quale verrà prontamente dichiarato adottabile dal tribunale dei minori; il che prelude alla sua immediata adozione, stante la grande abbondanza di potenziali genitori in lista, appunto, per un’adozione.

Accanto a questa, un’altra alternativa per la donna che non volesse riconoscere in alcun modo il figlio messo al mondo è costituita dalle cosiddette culle per la vita. Si tratta di strutture esistenti in vari esemplari nella nostra Penisola - quelle attuali sono una sessantina e site spesso, anche se non sempre, nelle immediate vicinanze degli ospedali (qui una mappa) -, che riprendono le antiche «ruote degli esposti». Ritornate in auge nei primi anni Novanta grazie in particolare all’impegno del volontario pro life Giuseppe Garrone (1939-2011), le culle per la vita di oggi sono però estremamente più attrezzate di quelle di un tempo, essendo riscaldate all’interno, monitorate con una videocamera e collegate a un allarme che informa della deposizione di un neonato; motivo per cui esse, a loro volta, richiedono una manutenzione attenta.

La mamma che lascia in una culla per la vita il suo bambino, insomma - per quanto il gesto possa comprensibilmente essere molto sofferto -, compie sia un gesto d’amore sia di responsabilità, dal momento che presso queste culle il figlio non resta affatto incustodito né esposto a gravi pericoli. Purtroppo, dei circa 3.000 neonati che ogni anno non vengono accettati solo una minima parte, appena qualche centinaio, viene lasciato in ospedale o deposto presso una culla per la vita. Beninteso: anche solo una vita salvata dalla tragica fine in qualche cassonetto rappresenta una vittoria. Viene però da chiedersi come mai del «parto in anonimato» e ancor più della culla per la vita, come già detto, si parli poco.

Una chiave di lettura in proposito la dà la presidente del Movimento per la Vita Italiano, la professoressa Marina Casini Bandini, secondo la quale «la scarsa informazione su queste opzioni è probabilmente dovuta ad una cultura che cerca di mettere il silenziatore sul bambino nella fase prenatale e di conseguenza non favorisce la conoscenza di strumenti che potrebbero evitare infanticidi, tragici abbandoni, ma anche aborti». Parole assai condivisibili, quella della leader pro life, e che ci portano anche a constatare un singolare paradosso odierno: quello per cui, in un tempo in cui si fa un gran parlare della libertà della donna, si finisce quasi con il censurare strumenti quali il «parto in anonimato» e la culla per la vita che proprio della libertà femminile - in questo caso quella di non riconoscere il figlio messo al mondo - sono tangibili garanzie.

Si rafforza così il sospetto che, in realtà, la libertà femminile altro non sia che il comodo paravento di una cultura della morte che, pur di non palesarsi, opta per sembianze politicamente corrette che non la rendano riconoscibile in tutto il suo vuoto antropologico. Sia come sia, quel che appare ora urgente è pubblicizzare le culle per la vita, tramite i social o semplicemente parlandone alla prima occasione utile con amici e parenti, anche perché praticamente in ogni regione ve n’è almeno una. Attraverso questa opera di informazione si può far sì che il diritto della gestante al suo anonimato - e a partorire senza farsi cogliere poi da pensieri di gesti estremi - sia adeguatamente tutelato; il tutto a beneficio della donna stessa, naturalmente, e di una vita che magari anche grazie al nostro piccolo contributo, chi lo sa, potrà sfuggire all’abbandono e alla morte, trovando l’amorevole accoglienza di una famiglia che è già lì che la aspetta.

CULLE PER LA VITA, LA MAPPA