Cruz o Rubio, chi si sacrifica per fermare Trump?
Donald Trump fa il pieno di voti nel super-martedì delle elezioni primarie americane. Ma i delegati vinti dai suoi rivali, se sommati, lo battono. Ora i due contendenti più concreti di Trump sono Ted Cruz (Texas) e Marco Rubio (Florida). Uno dei due deve sacrificarsi, se il Partito Repubblicano vuole unire le forze contro un candidato, come Trump, che perderebbe contro Hillary Clinton.
Il 1° marzo il Partito Repubblicano e il Partito Democratico hanno votato per scegliere con le primarie i delegati che alle Convenzioni nazionali di partito. In luglio designeranno il candidato presidente che l’8 novembre si sottoporrà al voto diretto popolare. Lo hanno fatto in Alabama, Arkansas, Colorado, Georgia, Massachusetts, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont e Virginia. In più, i soli Repubblicani hanno votato in Alaska (i Democratici lo faranno il 26 marzo), in North Dakota (i Democratici il 7 giugno) e in Wyoming (i Democratici il 9 aprile).
Solo i Democratici hanno votato anche nelle isole Samoa Americane (i Repubblicani lo faranno il 22 marzo), che però, essendo un “territorio non incorporato” (un “possedimento”) e non uno Stato dell’Unione, e dunque essendo i loro abitanti american national e non american citizen, votano per la nomination ma non, dopo, per il presidente. Infine, i Democratici hanno anche aperto le sessioni di voto del loro elettorato registrato ma residente all’estero che si chiuderanno l’8 marzo (i Repubblicani invece, che non hanno il medesimo processo formale di voto, spingono il proprio elettorato registrato residente all’estero a votare negli Stati di origine attraverso il voto per corrispondenza).
Tra i Democratici, la Clinton ha vinto in Alabama, Arkansas, Colorado, Georgia, Massachusetts, Samoa, Tennessee, Texas e Virginia; lo sfidante spavaldamente socialista Bernie Sanders in Oklahoma, Minnesota e Vermont. Tra i Repubblicani, Trump ha vinto in Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Tennessee, Vermont, Virginia; Ted Cruz in Alaska, Oklahoma, Texas; e Marco Rubio in Minnesota.
Fuori dal conto (il che complica ulteriormente il quadro e i calcoli) restano North Dakota, Wyoming e Colorado per i Repubblicani giacché lì i delegati votati non hanno vincoli rispetto ad alcun candidato in lizza, ma sceglieranno chi sostenere alla fine, durante la Convenzione nazionale del partito.
In casa Democratica, la Clinton ha confermato se stessa, ma Sanders ha vinto più del previsto: il Vermont era scontato, ma non così il Massachusetts e soprattutto l’Oklahoma. L’ex First Lady riceverà certamente la nomination, anche perché i “superdelegati” (circa 717) emblema dell’establishment del partito, ovvero certi suoi membri eminenti che hanno a disposizione voti propri da giocare come vogliono, si sono già, e da tempo, espressi in larga parte a suo favore; ma Sanders combatterà verosimilmente sino alla fine, tentando di spostare quanto più potrà a sinistra il baricentro politico della corsa Democratica alla Casa Bianca.
Sull’altro fronte, invece, il Partito Repubblicano, divenuto oggi il partito dei valori, dei “princìpi non negoziabili”, persino qualcuno si azzarda a dire un “partito cristiano”, soffre l’assalto di Trump, che per la gran parte dei conservatori è, al massimo, una risposta pessima a bisogni fondati. Trump ha vinto quel che si prevedeva vincesse, ma ha anche perso qualcosa in più di quanto previsto. Il successo di Cruz in Texas (il suo Stato) era in cantiere, ma non così quelli in Alaska e in Oklahoma. Del resto non lo era nemmeno la vittoria di Rubio in Minnesota. E neppure altri “parziali” su cui in queste ore i Repubblicani stanno alacremente lavorando. Anzitutto ancora l’Alaska della Sarah Palin che sostiene Trump andata a Cruz, ma poi anche il secondo posto di John Kasich in Vermont a un soffio da Trump e il molto più distanziato secondo posto, ma pur sempre secondo posto, dello stesso Kasich in Massachusetts. Quindi il Minnesota, dove per la prima volta Trump è finito terzo (prima che arrivassero i risultati del Minnesota si era vantato in diretta tivù di uscirne sempre e solo o primo o secondo) e dove Rubio ha staccato Cruz che ha staccato Trump; e poi pure l’Oklahoma dove Cruz ha staccato Trump ma Trump non ha staccato Rubio.
Sommando tutto, ne esce lo status quo ante: al di là dei trionfalismi a caldo, Trump conserva intatto solo il proprio risultato, cioè un terzo dei voti Repubblicani, il che vuol dire che, uniti, i suoi sfidanti lo sconfiggerebbero sonoramente. Che non sia mera utopia lo dimostra il fatto che i numeri ottenuti da Cruz e da Rubio sono sin dall’inizio spesso vicinissimi e alla fine i loro successi di fatto equipollenti. Si è detto che non vincendo neanche uno Stato Rubio è un perdente, ma non è vero; non favorito alla vigilia, non ha vinto, ma ha fatto spesso bene e stavolta ha pure vinto uno Stato. Cruz, invece, più favorito di lui alla partenza, dopo l’abbrivio vittorioso e inaspettato in Iowa, ha continuato a perdere (a differenza di Rubio, ha sempre avuto il fardello di dover difendere una vittoria). Fino a oggi. Oggi, dopo che entrambi hanno dimostrato di saper vincere pur dividendosi quasi il medesimo elettorato conservatore, tra Cruz e Rubio è sostanzialmente parità. Anzi, una possibilità politica spaccata a metà, ovvero sprecata.
Ben Carson, ma anche John Kasich (gli altri due Repubblicani in gara) getteranno la spugna a breve. Per battere Trump dovranno farlo anche o Cruz o Rubio. Nessun elettore di Carson, Kasich, Rubio o Cruz passerà a Trump qualora il proprio candidato si ritirasse, ma se adeguatamente corteggiati tutti potranno passare facilmente a Rubio o a Cruz. Il problema vero è chi farà il passo. Paradossalmente, i successi di Cruz e di Rubio nel “Supermartedì” hanno rimandato ancora questa decisione inesorabile. Cruz ha vinto, e quindi non vuole farsi da parte; Rubio ha vinto, e quindi punta a vincere ancora il 15 marzo nella sua Florida. Ma a meno di non voler perdere entrambi uno deve sacrificarsi.
Il numero minimo di delegati che assicura la nomination Repubblicana alla Convenzione nazionale è 1237 su 2472. Oggi Trump ne conta 316, Cruz 226, Rubio 106, Kasich 25, Carson 8. In nessuno Stato Trump ha ottenuto più del 50% dei voti e pertanto i delegati sono sempre stati assegnati proporzionalmente. Il 15 marzo il voto di Florida, Illinois, Missouri e Ohio ne assegnerà in un solo colpo altri 286 con una differenza di legge elettorale: chi vincerà, prenderà tutto. Prima, durante e dopo ci sono da vincere ulteriori delegati. Cruz o Rubio (che tra l’altro gode del favore dell’establishment del partito, oggi un establishment conservatore) possono vincere. I “superdelegati” Repubblicani (3 per ogni Stato) non si sono ancora espressi (e verosimilmente sceglieranno Rubio). Ma perderanno se resteranno entrambi in corsa o se uno uscirà semplicemente di scena dando mere indicazioni di voto ai suoi. La loro arma è unirsi visibilmente, fare campagna elettorale assieme, fare tandem, squadra, magari promettere un ticket da presidente e vice in nome del “partito dei valori”, della famiglia, dei princìpi non negoziabili, qualcuno azzarda persino del “partito cristiano”.
Altrimenti potrebbe accadere quel che nessuno si augura. Che alla Convenzione nazionale Repubblicana in programma dal 18 al 21 luglio alla Quicken Loans Arena di Cleveland in Ohio (nell’Ohio governato da Kasich) né Cruz, né Rubio, né Trump arrivino con in tasca la maggioranza dei delegati necessaria alla nomination presidenziale. E allora? E allora sceglierà la Convenzione stessa, scatenando un putiferio che invece lo spirito di sacrificio in nome di un bene maggiore può esorcizzare da subito. Il poscritto non è del resto da poco. Oggi i sondaggi sugl’ipotetici scenari futuri danno sia Trump sia Cruz perdenti in novembre contro la Clinton, ma Rubio vincente.