Cristiani perseguitati, soprattutto testimoni
Omicidi, attentati e persecuzioni. Dall'Egitto al Vietnam, dove i cristiani sono minoranza, rischiano l'arresto delle autorità o l'assalto dei connazionali. Eppure, in queste nuove catacombe, i fedeli riempiono le chiese e fanno opere di carità.
Li attaccano e li uccidono, come succede in Nigeria e in altri stati, mentre pregano in chiesa, la domenica. Chi non è ferito a morte afferra i figli e fugge, si rifugia terrorizzato in casa: e neanche lì è al sicuro dalla furia degli aggressori, capaci di sterminare intere famiglie, saccheggiarne e raderne al suolo le case. Eppure la domenica successiva i superstiti tornano in chiesa e trovano i sacerdoti ad accoglierli, sebbene minacciati di morte. Profanano, abbattono e bruciano le loro chiese – in Egitto, Tanzania, Kenya, India… – e loro le ricostruiscono.
Se non ottengono il permesso di costruire o si vedono sequestrati i luoghi di culto, come in Indonesia, Sri Lanka, India, allora si raccolgono per la messa sotto una tettoia e, se necessario, svolgono le funzioni anche a cielo aperto. Circondati da cordoni di agenti di sicurezza, protetti da gruppi di autodifesa che perquisiscono chi si avvicina e sorvegliano i dintorni, celebrano le ricorrenze religiose anche durante i periodi più pericolosi, a Natale e Pasqua, quando gli attentati, le violenze e le intimidazioni si intensificano. Persino, come in Malesia, proibiscono loro di pronunciare il nome di Dio – se nella loro lingua è la stessa parola usata dai Musulmani – e allora affrontano la prigione e la morte per mettere in salvo i libri sacri in cui quel nome compare e che gli integralisti vorrebbero distrutti. Dove la professione di fede è proibita e punita severamente, ad esempio in Corea del Nord, pregano da soli, di nascosto, o in piccoli gruppi, nel segreto di case trasformate in cappelle.
Soprattutto, mai, per nessuna ragione, rinunciano alle opere benefiche, all’assistenza, alle iniziative di promozione umana: anche dopo essere stati derubati di tutto ed espropriati, messi in fuga, arrestati, appena riescono, tra mille ostacoli e difficoltà, di nuovo raccolgono fondi, cibo, indumenti e altri beni utili da distribuire a chi ne ha bisogno, organizzano servizi e reti di soccorso, intraprendono attività di formazione, campagne di sensibilizzazione al rispetto dei diritti umani: e lo fanno per tutti, credenti e non, senza discriminazioni di sesso, razza, appartenenza politica e fede.
Sono i cristiani che costituiscono minoranze in paesi in cui prevalgono altre religioni o in cui le fedi sono bandite, “tribolati, ma non schiacciati”, come afferma il bel titolo di un libro pubblicato nel 2012 da Lindau che raccoglie storie di persecuzione e fede raccontate dal giornalista Rodolfo Casadei.
“La solidarietà cristiana deve trovare attuazione concreta nella realtà e le attività caritatevoli devono coinvolgere cattolici e non”: con queste parole i volontari della Caritas del Vietnam descrivono lo spirito che ha animato fin dalle origini le comunità cristiane inducendole a sfidare e infrangere le barriere di società strutturate in gruppi d’appartenenza impermeabili e insostituibili.
Nella Worldwatch List 2014 dei paesi che più duramente perseguitano i cristiani, compilata ogni anno dall’organizzazione internazionale Open Doors, il Vietnam figura 18°, tra quelli cioè che infliggono persecuzioni classificate “molto gravi”. Lo scorso Natale le autorità hanno addirittura impedito a un gruppo di volontari cattolici di consegnare coperte e altri doni agli orfani e ai poveri della provincia di Kontum. Il loro capo è stato picchiato tanto seriamente da richiederne il ricovero in ospedale. Ma le attività dei cattolici – quasi il 7% della popolazione vietnamita – proseguono in tutto il paese. Nell’arcidiocesi di Ho Chi Minh, anzi, le iniziative si moltiplicano e quelle già in atto vengono ampliate. È successo con “Un piatto di minestra di Madre Teresa”, un progetto avviato nel 2011 dall’Associazione delle madri cattoliche della parrocchia di Than Da per fornire pasti caldi ai malati di cancro e ai loro famigliari: all’inizio si limitava a due pasti al mese per circa 200 persone, mentre adesso è in grado di provvedere regolarmente ai bisogni di oltre 400 malati tra cui figurano fedeli di altre religioni. Insieme al cibo, i volontari offrono consolazione, incoraggiamenti, umana compassione che aiutano i pazienti e i loro famigliari a trascorrere meno dolorosamente gli ultimi giorni della malattia.
Anche la comunità cattolica della città di Vinh, nel nord del paese, provvede agli ammalati senza considerare il ceto sociale e la religione d’appartenenza. Ha creato una clinica aperta a tutti e una rete di piccole farmacie che serve l’intera diocesi. Inoltre medici e infermiere distribuiscono gratuitamente medicinali recandosi nelle zone più remote e povere della regione. La comunità ha poi istituito scuole e centri diocesani per disabili e sostiene alcune attività economiche: ad esempio, con un fondo nato per garantire cibo alle mucche da latte e con incentivi alla costruzione di case. Nel 2014 inoltre intende dedicare una particolare attenzione alla vita famigliare con un programma pastorale, al fine – come ha spiegato Paul Nguyen Thai Hop, vescovo di Vinh, in una recente intervista all’agenzia Asia News – di rendere ogni famiglia centro dell’evangelizzazione e motore dell’evangelizzazione della società”.