Cristiani in Iraq, si avvicina la soluzione finale
"Facciamo appello con tristezza e dolore alla coscienza di tutti i popoli di buona volontà, alle Nazioni Unite e all'Unione europea, affinché salvino dalla morte queste persone innocenti. Sperando che non sia troppo tardi". È il patriarca Louis Sako che parla, dall'Iraq.
Quante volte abbiamo sentito in questi anni il ritornello sul rischio di un Medio Oriente senza cristiani? Forse lo abbiamo preso per un'iperbole, una di quelle frasi ad effetto che si dicono esagerando un po' per attirare l'attenzione. Invece da ieri è cosa fatta non solo a Mosul, ma in una regione molto più ampia del nord dell'Iraq. Dall'altra notte ci sono centomila cristiani in fuga dalla Piana di Ninive, l'ultima enclave rimasta: sono dovuti scappare a piedi, con appena i propri vestiti indosso, in un'area desertica dove il sole picchia a cinquanta gradi. Tutti: anche donne, anziani, malati, bambini. Accomunati nella sorte in queste ore ai yazidi, l'altra minoranza religiosa messa nel mirino dai fondamentalisti islamici dell'Isis, loro in fuga sulle montagne di Sinjar, al confine con la Turchia.
Per gli ultimi cristiani del nord dell'Iraq il dramma si è materializzato alle undici di sera: a Qaraqosh, la maggiore città cristiana della piana di Ninive, con i suoi cinquantamila abitanti, da ore sotto i colpi dei mortai del califfato, il comandante locale delle milizie curde ha comunicato all'arcivescovo che il suo contingente si stava per ritirare da lì e dagli altri villaggi cristiani della zona. La guerra tra gli islamisti e i curdi è ormai a tutto campo e la difesa della piana di Ninive (come ampiamente prevedibile) non rientra tra le priorità dei peshmerga che vedono anche i propri territori minacciati. Così – nel cuore della notte – i cristiani di Qaraqosh si sono ritrovati abbandonati con i miliziani islamisti ormai in città. “I jihadisti del califfato sono arrivati in forze e con gli altoparlanti hanno imposto alla popolazione di abbandonare le loro case così come erano – ha raccontato all'agenzia Fides suor Luigina, una religiosa delle Suore Caldee Figlie di Maria Immacolata presente a Qaraqosh -. La gente è stata costretta a scappare in pigiama”. Un racconto che non è affatto azzardato accostare a quello della notte dei cristalli, una delle pagine più buie della persecuzione nazista contro gli ebrei.
Ai cristiani iracheni non è rimasta altra possibilità che la fuga. Ma la domanda è immediatamente diventata: verso dove? Dopo aver accolto già da Mosul centinaia di migliaia di profughi (non solo cristiani), il Kurdistan ha fatto resistenza a farli entrare entro i propri confini. Così migliaia di persone, abbandonate a se stesse, si sono ritrovate senza cibo, acqua, una tenda per ripararsi. Fortunatamente – di fronte alle proporzioni della catastrofe – la situazione in giornata si è sbloccata e ancora una volta sono state le parrocchie di Erbil ad aprire le porte per l'accoglienza.
Da ieri, dunque, il cristianesimo nel nord dell'Iraq è rimasto solo ad Erbil. Comunità la cui presenza risale alla predicazione degli apostoli sono state spazzate via in pochi giorni. Sono dovuti andare via persino i monaci di Mar Mattai, un monastero siro ortodosso fondato nel IV secolo, uno dei più antichi al mondo. Espulsi anche loro e con ogni probabilità distrutti i preziosissimi manoscritti che custodivano: un patrimonio inestimabile di testi siriaci, memoria di quei figli della comunità di Antiochia che furono i grandi evangelizzatori del primo millennio.
È tenendo presente tutto questo che bisogna leggere l'appello lanciato ieri, immediatamente, da Papa Francesco. “Sua Santità - vi si legge - rivolge il suo pressante appello alla Comunità Internazionale, affinché, attivandosi per porre fine al dramma umanitario in atto, ci si adoperi per proteggere quanti sono interessati o minacciati dalla violenza e per assicurare gli aiuti necessari, soprattutto quelli più urgenti, a così tanti sfollati, la cui sorte dipende dalla solidarietà altrui”.
Che cosa questo significhi concretamente sempre ieri l'ha spiegato il patriarca caldeo Louis Sako. Con la consapevolezza di chi di appelli ne ha lanciati a decine nelle ultime settimane nella speranza che il mondo facesse qualcosa per evitare questo esito drammatico. Ma non è servito a nulla. Contro quell'Isis che una gestione assolutamente scellerata della crisi siriana ha contribuito a creare e a rendere forte, gli Stati Uniti e l'Europa hanno preferito cullarsi nell'illusione che bastassero i peshmerga curdi a porre un argine al dilagare del califfato.
Così ieri il patriarca Sako ha messo nero su bianco l'ennesimo messaggio, quanto mai chiaro: “È evidente a tutti che il governo centrale iracheno è incapace di imporre la legge e l'ordine in questa parte del Paese – ha scritto -. E ci sono dubbi anche sulla capacità del governo regionale del Kurdistan di fermare da solo l'avanzata dei jihadisti. Appare evidente la mancanza di collaborazione tra il governo centrale e quello della regione autonoma. C'è bisogno di un sostegno internazionale e di un esercito professionale e ben equipaggiato. Facciamo appello con tristezza e dolore alla coscienza di tutti i popoli di buona volontà, alle Nazioni Unite e all'Unione europea, affinché salvino dalla morte queste persone innocenti. Sperando che non sia troppo tardi”. Qualcuno - almeno adesso - lo ascolterà?