Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
ANTONIA ARSLAN

Cristiani armeni in Siria: il rischio di un genocidio

Gli armeni sopravvissuti al genocidio turco del 1915 hanno vissuto pacificamente in Siria. Ora che le violenze contro i cristiani sono riprese, temono il peggio. La testimonianza della scrittrice Antonia Arslan. 

Esteri 04_09_2013
chiesa armena

Sulla Siria si snocciolano molti dati, i 100mila morti, i 2 milioni di rifugiati, i 2 anni e 6 mesi di conflitto. Ma si dimenticano i circa 100mila cristiani armeni che vivono ad Aleppo. E i circa 6mila che hanno abbandonato la Siria nel timore di nuove persecuzioni. Si teme sempre per l’uso di armi chimiche da parte del regime di Bashar al Assad. Ma se i ribelli dovessero conquistare Aleppo, quei 100mila armeni potrebbero diventare le vittime di un nuovo genocidio. Fra i tanti popoli che temono un intervento statunitense contro Assad, gli armeni sono quelli che tremano di più.

La storia degli armeni in Siria è drammatica quanto sconosciuta. Ne abbiamo parlato con Antonia Arslan, scrittrice, nota al grande pubblico per aver scritto il romanzo La masseria delle allodole una delle più toccanti testimonianze del genocidio degli armeni del 1915, il crimine commesso dai Giovani Turchi, prodromo di tutte le violenze totalitarie del Novecento.

«Ci sono armeni da sempre in Siria – spiega Antonia Arslan – Ci sono sempre stati ad Aleppo, che è una città antica, ed era un vivace crocevia di popoli. E questa è la chiave per capire perché le deportazioni che seguirono i massacri degli armeni nel 1915 avevano come destinazione proprio Aleppo. E come questo abbia salvato parte delle vittime. Aleppo, nella terribile estate del 1915 e nell’anno successivo, si mobilitò per salvare quanti più deportati possibili. Si mossero gli armeni che vivevano nella città, si mossero gli occidentali che vi lavoravano, si mosse il console tedesco di Aleppo (Walter Rossler, una figura straordinaria) e anche la popolazione araba che era, sì, soggetta all’Impero Ottomano, ma non condivideva il suo odio per gli armeni. Il più grande albergo dell’Aleppo di allora, il Baron’s Hotel (dove in seguito sostarono anche Lawrence d’Arabia e Agatha Christie) era di proprietà di una famiglia armena ed era la sede dello stato maggiore di Djemal Pashà, il terzo dei triumviri turchi responsabili del genocidio. Era fanatico anche lui. Ma almeno era sensibile: ai soldi. Gli altri due triumviri, Talaat Pashà ed Enver Pashà, nel 1916 si precipitarono a chiudere questa “falla” del genocidio, apertasi in Siria. E infatti in quell’anno, con una serie di rastrellamenti ad Aleppo, molti armeni sopravvissuti furono arrestati e deportati nei campi di concentramento di Deir Ezzor, dove fu condotta la vera e propria “soluzione finale”. La comunità dei sopravvissuti, ad Aleppo, iniziò a ingrandirsi di nuovo, prima nel periodo del mandato francese, poi nella Siria indipendente».

Il rapporto dei cristiani armeni con il regime di Assad non è mai stato conflittuale. Ed è per questo che frange della resistenza ora li considerano “collaborazionisti”. In realtà, spiega Antonia Arslan: «I due Assad, padre e figlio, appartengono loro stessi ad una minoranza religiosa, quella degli alawiti, che costituisce il 10% della popolazione siriana. In origine, almeno, era un regime nazionalista laico. Non ha mai dominato l’idea di sterminare per l’appartenenza religiosa. Gli armeni, così come le altre minoranze cristiane della Siria, hanno vissuto con una certa tranquillità fino allo scoppio della guerra. L’ambasciatrice italiana, Laura Mirachian (di origine armena) ha sempre confermato che la situazione fosse stabile, relativamente tranquilla, per gli armeni di Aleppo. Non ci sono dubbi che il regime sia peggiorato e che gli ultimi anni siano stati terribili. Ma incolpare le minoranze cristiane di tutti i suoi crimini è un argomento che usano coloro che le vogliono sterminare tutte». Con l’inizio della rivolta e la sua degenerazione in guerra civile, le comunità armene «hanno tentato di fare quel che fecero i loro connazionali durante la lunga guerra civile libanese (1975-1990): rimanere chiusi nei loro quartieri, non attirando l’attenzione dei belligeranti. Cosa che è sempre più difficile. In Libano gli armeni sono riusciti a salvare i loro distretti, ma ora sono ancora a rischio, a causa dell’esportazione della violenza siriana nei Paesi vicini. La loro “politica della chiocciola”, quella di stare chiusi nei propri quartieri, deriva anch’essa dalla memoria del genocidio turco: l’esperienza dello sterminio è ancora troppo recente per non provare un senso di istintivo terrore».

E se vincesse la resistenza islamica al regime di Assad? «Mi hanno già raccontato episodi terrificanti. Una delle dinamiche classiche di questo tipo di “guerra” è lo stupro sistematico delle ragazze. Portate via dalle loro case, stuprate a ripetizione e poi uccise quando sono ridotte a straccio. Oppure convertite a forza all’islam e sposate con contratti di matrimonio che durano un giorno. E poi sposate da un altro uomo, e un altro ancora … e infine buttate via, uccise. Il terrore per questo tipo di violenza è fortissimo ed è evidente che le milizie jihadiste siano per l’eliminazione di tutte le enclave cristiane». Quando Aleppo stava per cadere definitivamente nelle mani dei ribelli, gli armeni si preparavano al peggio: «A fine maggio ne parlavo con monsignor Georges Noradounguian (rettore del Pontificio Collegio Armeno), che ha tutta la sua famiglia ad Aleppo. In quel momento sembrava che i ribelli dovessero espugnare la città. E lui mi diceva che la sua famiglia era chiusa in casa, nel quartiere armeno. Nel momento in cui fossero arrivati i ribelli, non sarebbe rimasto altro che lasciarsi andare giù dal terzo piano. Rispetto alla violenza, alle torture, alla morte lenta e dolorosa, è già meglio il suicidio». In vista di una possibile vittoria dei ribelli, le comunità armene in Europa e in Nord America non possono far altro che preparare una fuga di massa. Anche se: «Non credo che possano avere udienza da Obama. Il presidente statunitense ha sempre rifiutato di pronunciare la parola “genocidio” per i fatti del 1915, anche se lo aveva promesso in campagna elettorale. Quel che gli armeni cercano di organizzare, almeno, è una fuga. Ho paura che pensino che non ci sia più niente da fare per garantire la sopravvivenza di questa comunità in Siria. C’è solo l’idea di scappare e salvarsi dalla possibilità di un nuovo genocidio».