Crisi denatalità. No fede, no figli
Il rapporto Istat 2020 dipinge un quadro molto cupo dal punto di vista demografico per l'Italia. Aggravato sì dalla pandemia, ma il problema viene da molto più lontano. Non c'è dubbio che la denatalità ha accompagnato il processo di secolarizzazione. Anche la Chiesa deve capirlo: il problema è la fede, non le questioni sociali.
10.000 figli in meno. Questo il prezzo demografico che, in aggiunta a quelli sanitari ed economici, la pandemia potrebbe comportare per il nostro Paese. L’inquietante profezia si trova a pagina 261 del Rapporto annuale 2020 Istat diffuso venerdì. Si tratta di un corposo documento che va ad esplorare vari ambiti, a partire naturalmente da quelli economici e lavorativi, e che sul finire delle poco meno di 300 pagine di cui è composto contiene una previsione sull’aggravarsi della denatalità che sarebbe eufemistico definire cupa.
«Recenti simulazioni, che innanzitutto tengono conto del possibile condizionamento delle scelte riproduttive derivante dal clima di incertezza e paura associato alla pandemia in atto», si legge nel Rapporto, «evidenziano un suo primo effetto sulla riduzione delle nascite nell’immediato futuro». Questo calo, continua l’Istat, «dovrebbe mantenersi nell’ordine di poco meno di 10 mila unità, ripartite per un terzo nel 2020 e due terzi nel 2021, con un calo della natalità dello 0,84% nel 2020, rispetto al 2019, e un ulteriore calo dell’1,3% nel 2021».
Per quanto questi numeri siano esito di «simulazioni», c’è purtroppo da temerli realistici. Anche perché sono allineati ad un quadro internazionale tutt’altro che roseo: un recente rapporto del Brookings Institution, centro di ricerca con oltre un secolo di storia, ha stimato che gli Usa pagheranno demograficamente la pandemia con un calo di nascite tra le 300.000 e le 500.000 unità; in Giappone i tassi di fertilità sono precipitati al livello più basso degli ultimi 12 anni e la Corea del Sud, che pure ha gestito l’emergenza sanitaria in modo esemplare riportando finora meno di 300 vittime, si trova con un deprimente 1.1 figli per donna ad essere il Paese del globo dove la natalità è più bassa.
Ma torniamo all’Italia che, dice l’Istat, rischia di scontare un «condizionamento delle scelte riproduttive derivante dal clima di incertezza e paura associato alla pandemia in atto». Considerazioni plausibili? Probabilmente sì, nel senso che il clima di incertezza attuale di certo non favorisce progetti familiari né lascia immaginare, a breve, una nuova primavera demografica. Dunque è verosimile che in questo 2020 le culle, già semideserte, potranno ulteriormente svuotarsi. Tuttavia, ecco il punto, sarebbe troppo semplice – e anche troppo comodo – addossare la responsabilità di tutto al Covid-19.
Non possiamo infatti dimenticare quale sia la situazione dell’Italia, ovvero di un Paese sotto il decisivo tasso di sostituzione - pari a 2.1 figli per donna - dal lontano 1977, in cui dal 1993 i morti hanno superato i vivi e in cui dal 2008 al 2018 il calo delle nascite è stato di 140.000 unità, con il risultato neppure di una denatalità bensì, ormai, di un principio di spopolamento. Questo, beninteso, non significa che i 10.000 nati in meno previsti dall’Istat non ci saranno; significa però che l'«incertezza e paura associato alla pandemia in atto» c’era già da prima. Da quando? Da quando, come Paese, abbiamo imboccato la strada della secolarizzazione pagando un prezzo altissimo anche se non monetario: quello della speranza.
Lo dimostra in modo chiaro il parallelismo con il Dopoguerra, a più riprese evocato come termine di paragone con quel che ci aspetta dopo la pandemia. Ebbene, è vero: dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia era in macerie e del welfare non esisteva neppure l’ombra. Eppure, nel 1946 nacquero 1.036.098 bambini, più del doppio dei 435.000 nati del 2019, quando il Covid-19 era ancora percepito come un problema cinese. Com’è possibile? Semplice: quell’Italia del 1946, benché per lo più ridotta in stracci, aveva speranza. Ed aveva speranza non perché avesse chissà quali certezze nel futuro, ma perché aveva fede.
Che le cose stiano in questi termini è dimostrato dalla differenza che ancora oggi si osserva tra famiglie religiose – quale che ne sia il credo – e unioni familiari laiche: le prime fanno più figli delle seconde, spesso anche molti di più. Ecco che allora il rimedio al clima d’«incertezza e paura associato alla pandemia in atto» - per superare il quale all’Italia serve senza dubbio un governo meno disastroso di quello in carica – non può che passare da quella riscoperta della religione di cui, a ben vedere, qualche vagito si è registrato negli ascolti televisivi record di Messe e Rosari di questa primavera.
Certo, nel frattempo la Chiesa deve fare la Chiesa. Appare infatti impensabile una rinascita religiosa se quelli che ne potrebbero essere i principali artefici seguiteranno a soffermarsi su tutt’altri temi, dalla questione migratoria a quella ambientale, dalla lotta alla povertà a quella alle mafie. Tutte questioni rilevanti, per carità. Ma l’Italia, per tornare a guardare avanti, ha bisogno anzitutto di guardare in Alto. E solo alla Chiesa spetta l’onere e l’onore di operare affinché questo accada. Perché, come gli studi demografici dimostrano, la fede non è affatto una questione solo privata. Ha riflessi sociali che riguardano tutti e che, nel caso dell’Italia, possono segnare la differenza tra l’estinzione e la rinascita.