Crisi del Qatar, la fuga degli immigrati cristiani
Cristiani in fuga dal Qatar, a causa dell'embargo (imposto dai paesi arabi vicini) che ha creato subito un forte contraccolpo economico. Arrivati come lavoratori, ora fuggono dalla disoccupazione. Ma come vivevano? Praticamente da schiavi, in un paese con 2,3 milioni di immigrati su una popolazione di 300mila cittadini, dove nessuna religione all'infuori dell'islam è libera.
Quale effetto collaterale della crisi del Golfo, causata dall’embargo imposto al Qatar dai paesi arabi vicini, i 300mila cristiani cattolici stanno abbandonando il paese. La comunità cristiana locale, quasi interamente costituita da lavoratori immigrati dall’Asia, sta quasi completamente scomparendo dal territorio dell’emirato.
Lo dichiara ad Asia News padre Camillo Ballin, vicario apostolico dell’Arabia Settentrionale, un territorio che include Kuwait, Arabia Saudita, Qatar e Bahrein. “Questa situazione – dice Ballin - finisce per coinvolgere i cristiani che non hanno interessi personali nelle vicende di politica locale”. L’incertezza, aggiunge, “non incoraggia gli investimenti e il risultato è un Paese bloccato”. Non è per motivi religiosi o politici, dunque, che sta avvenendo l’esodo, ma per motivi economici. I cantieri si fermano. Le aziende chiudono. E benché la vita quotidiana nel piccolo emirato continui senza troppi problemi, grazie agli aiuti che riceve da Turchia e Iran, l’embargo si fa sentire soprattutto sui lavoratori più deboli, sugli operai immigrati. Al momento, dichiara mons. Ballin ad Asia News, “non si hanno ancora numeri precisi” sul numero di cristiani che hanno lasciato il Paese. Tuttavia, è certo che “diverse famiglie sono già partite” e dagli oltre 300mila fedeli del periodo pre-crisi “il numero potrebbe presto calare”. La comunità cattolica locale è costituita da immigrati che arrivano da paesi asiatici, soprattutto India e Filippine, poi dalle minoranze cristiane in Bangladesh e Pakistan. I cristiani sono occupati in diversi settori, alcuni dei quali “specializzati” come “infermieri, farmacisti, dottori, insegnanti”; altri ancora sono “operai generici” che si adattano alle professioni più varie “pur di mantenere le famiglie di origine”.
Lascia sbalorditi il numero di cristiani: oltre 300mila in un paese che conta poco più di un numero analogo di cittadini, sudditi dell’emiro. La spiegazione lascia ancor di più sbalorditi: il Qatar ha una popolazione di 2,3 milioni di immigrati e 313mila suoi sudditi. Questo rende l’idea di come funzioni l’economia locale: un paese che è stato edificato e tuttora viene fatto funzionare da braccia straniere, a favore di una piccola e ricchissima (uno dei più alti redditi pro capite al mondo) popolazione locale. E il trattamento riservato a questi lavoratori stranieri, fra cui anche i 300mila cattolici asiatici, è quanto di peggio si possa immaginare. Investigando sui lavori di allestimento delle strutture sportive che ospiteranno il Mondiale 2022, Amnesty International ha intervistato lavoratori stranieri e ne ha ricavato un rapporto inquietante. Le condizioni sono da schiavi: maltrattamenti continui, abusi, operai dei cantieri costretti a vivere e dormire in squallidi campi nel deserto, stipendi trattenuti per tre o quattro mesi di fila, passaporti confiscati. Per attrarre manodopera, i reclutatori promettono salari dignitosi nei paesi d’origine degli emigranti, salvo poi riservare loro la “sorpresa” al momento dell’arrivo e della confisca del passaporto, quando diventa impossibile lasciare il paese. Questi metodi sono vietati dalla legge del Qatar. Proprio in vista del Mondiale di calcio, fra il 2013 e il 2014 era stata promessa una riforma del sistema “kafala” che lega il lavoratore al suo datore di lavoro, vietato il pagamento dilazionato del salario, vietata la confisca del passaporto. Tuttavia, le testimonianze raccolte da Amnesty rivelano che questi metodi sono ancora in uso, anche se non ufficialmente.
Un avvertimento al Qatar, sulle condizioni degli immigrati, era stato lanciato dall’Ilo, l’organizzazione sindacale mondiale dell’Onu, nel marzo del 2016. La delegazione delle Nazioni Unite, guidata dal giapponese Misako Kaji, aveva incotrato lavoratori immigrati che erano stati privati dei loro documenti, non potevano avere accesso alla sanità ed erano fortemente indebitati con i loro datori di lavoro, per le spese esose che erano costretti a sborsare per ogni cosa contro la dilazione dei loro salari. Quanto agli alloggi: “Non soddisfano per nulla gli standard minimi, in molti casi 10 o 12 lavoratori sono stipati in un’unica piccola stanza, priva di igiene e di servizi sanitari”.
A queste vessazioni sul posto di lavoro gli immigrati cristiani patiscono anche una continua pressione religiosa. Secondo l’ultimo rapporto di Open Doors, con la sua classifica sui peggiori persecutori, il Qatar è il 20mo peggior paese al mondo in cui vivere, per un cristiano. I lavoratori stranieri cattolici “possono praticare la propria fede finché non evangelizzano i musulmani; in caso contrario sono passibili di arresto ed espulsione. I cristiani emigranti dai Paesi poveri subiscono maggiori limitazioni della propria libertà religiosa”. La conversione dall’islam a un'altra religione è punibile con la morte. Secondo una testimonianza riportata da Open Doors, “La messa è proibita nei campi (degli alloggi dei lavoratori, ndr) e deve essere celebrate in segreto. Le donne immigrate che lavorano nelle case dei qatariani sono oggetto di abusi sessuali e altre forme di violenza”. I luoghi di culto cristiani, in generale, “sono vietati nel paese, fatta eccezione per i lavoratori immigrati, in aree designate fuori dalle città”.
Ora che il Qatar è sotto embargo e i lavoratori cristiani fuggono, le loro condizioni di vita sono ulteriormente destinate a peggiorare. A causa dell’imminente disoccupazione e di paesi vicini che non riservano agli immigrati trattamenti molto migliori.