Crisi del lavoro: basta lotte, servono riforme
L'emergenza lavoro è drammatica in tutta Europa. In Italia è ancora peggiore della media Ue. Il piano di Renzi per il lavoro (Jobs Act) è dunque la sua più grande sfida. Se si vuole un vero rilancio si deve ripensare tutta la cultura del lavoro.
I prossimi giorni saranno decisivi per definire una delle novità più importanti promesse sul fronte delle riforme: il Jobs Act, come sinteticamente vengono chiamate le misure per rilanciare l’occupazione e soprattutto offrire una strategia per affrontare la vera e propria emergenza della disoccupazione giovanile.
Al di là delle discussioni strettamente politiche, comunque importanti, è necessario partire da due dati di fatto. In primo luogo che appare ormai chiaro che se si avrà nei prossimi mesi una ripresa sul fronte della produzione, questa ripresa non sarà comunque in grado di creare, da sola, in misura significativa nuovi posti di lavoro. In secondo luogo bisogna tener conto che quello dalla disoccupazione è un problema europeo, pur se in Italia raggiunge livelli molto più allarmanti.
Quasi un quarto dei giovani cittadini Ue in età tra i 15 e i 24 anni sono senza lavoro mentre quattro anni fa la percentuale era solo del 15%. In totale, i disoccupati nell'Unione sono quasi 27 milioni di persone, ovvero quasi l’11% dei cittadini europei in età lavorativa. E quasi il 5% cioè 11,2 milioni di persone sono stati o sono senza lavoro per un periodo superiori ai dodici mesi: dal 2008 il numero dei disoccupati da lungo periodo è più o meno raddoppiato. Le cifre più drammatiche riguardano l'Europa meridionale: in Grecia sono quasi il 28%, in Spagna il 27%, in Italia il 24%. Ma per l’Italia le cifre sarebbero ancora più allarmanti se le statistiche considerassero disoccupati anche coloro che sono in cassa integrazione da lungo tempo e se tenessero conto di coloro che non cercano nemmeno più un posto di lavoro, scoraggiati di fronte alle difficoltà.
In queste condizioni non sorprenderebbe se nei prossimi mesi ci trovassimo di fronte ad un aumento (limitato) degli occupati insieme ad una crescita anche dei disoccupati: il miglioramento del clima economico porta alla ricerca di un lavoro anche chi, in precedenza, in modo particolare giovani e donne, si era ritirato, magari nel lavoro nero, di fronte alle difficoltà nel trovare un impiego. Ci sono poi molti elementi strettamente aziendali di cui tener conto. Molte imprese hanno capacità produttiva inutilizzata da rimettere in attività. Altre possono far ricorso a lavoratori che erano usciti dalla produzione pur non figurando statisticamente tra i disoccupati (per esempio, come detto, con la cassa integrazione guadagni). Altre ancora hanno introdotto innovazioni tecnologiche in grado di aumentare la produttività senza far crescere la forza lavoro. E inoltre possono ricorrere a ore straordinarie o esternalizzare la produzione anche per l’incertezza di una prospettiva di sostenibilità della crescita a medio termine.
Per tutte queste ragioni la crescita, da sola, non crea rapidamente occupazione. E politiche attive per l’impiego diverse dal passato sono sempre più necessarie. Politiche diverse, e molto, dal passato. L’esperienza dovrebbe aver già sufficientemente dimostrato come il tema della disoccupazione si può affrontare solo offrendo alle imprese la possibilità di essere maggiormente competitive e non attraverso incentivi che comunque non possono che essere limitati e temporanei. Non c’è incentivo economico che possa controbilanciare una penalizzazione sul fronte normativo o che possa convincere un’impresa ad assumere un giovane che non corrisponda ai requisiti di professionalità richiesti. Quindi apprendistato, formazione, rapporti scuola-impresa, sostegno ai redditi più che garanzie formali sul singolo posto di lavoro. Senza dimenticare quello che realmente penalizza le imprese italiane: gli alti costi dell’energia, il peso delle tasse, l’inefficienza della pubblica amministrazione.
Ma c’è al fondo la necessità di passare da un sistema non solo di conflitti, ma anche di sospetti, ad uno di comuni interessi e di collaborazione. E questa sarà la prova del fuoco per il Jobs Act di Renzi: se riuscirà ad uscire dalla logica che ha guidato il sindacato negli ultimi anni, e che ha trovato nel Pd un sostegno, potrà sicuramente fare dei passi avanti, ma soprattutto far fare dei passi avanti al sistema economico nel suo complesso.