Crescita a debito, tramonto di un paradigma
Negli ultimi quindici anni, le crisi economiche si sono susseguite in un crescendo preoccupante. Le cause sono molteplici, ma c'è un tratto comune: i Paesi industrializzati hanno sostenuto la loro crescita indebitandosi.
La cronaca di quanto accaduto negli ultimi lustri non appare certamente tranquillizzante: 1997 collasso delle “tigri” asiatiche, 1998 crisi russa, 2000-2002 fine del mito della cosiddetta new economy (scoppio bolla titoli t.m.t.: settori tecnologia, media e telecomunicazioni), 2007-2008 crisi immobiliare-finanziaria negli USA e quindi in tutti i Paesi occidentali, 2011-2012 crisi del debito sovrano dei Paesi periferici dell'area euro...con connesse ricadute dai mercati finanziari all'economia reale, alla tenuta sociale e politica di molti Paesi avanzati. Insomma, una sequenza sempre più ravvicinata, con pervasività crescente, di bolle e crash senza precedenti dalla Grande Depressione del 1929: un'anormalità che sembra sfuggire alla solita griglia interpretativa dei cicli economici. Ma che cosa sta accadendo?
I fenomeni complessi non sono certamente spiegabili in termini semplicistici, una pluralità di cause, prossime e remote, va probabilmente ravvisata dietro ai fenomeni sotto ai nostri occhi.
Proviamo ad analizzarne alcune: 1. delocalizzazione; 2. deficit; 3. debito.
Delocalizzazione: con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la conseguente fine della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, il processo di globalizzazione subisce una forte accelerazione, consentendo alle imprese una crescente delocalizzazione produttiva in Paesi con costi del lavoro, fiscali, ambientali nettamente inferiori alla media dei Paesi sviluppati. Contestualmente, i Paesi occidentali iniziano ad affidarsi sempre più all'import di prodotti a basso costo dalla Cina e da altri Paesi emergenti.
Nella prima fase, questo processo va a beneficio non solo delle aziende, ma anche dei consumatori occidentali, che possono beneficiare, rispettivamente, di un incremento di produttività e utili, nonché di beni a buon mercato. Esemplare è il caso degli Stati Uniti, che hanno potuto aumentare costantemente i consumi interni grazie alle importazioni a basso costo dalla Cina: consumi finanziati, quindi, non solo dai redditi prodotti ma anche e soprattutto da un deficit commerciale enorme (50 miliardi di dollari al mese), compensato poi dall'emissione di titoli del debito pubblico. Il surplus commerciale cinese si riversava poi su tali titoli, i cosiddetti Treasury (ancora oggi, ma in misura inferiore), andando a chiudere il cerchio.
Negli ultimi anni, tuttavia, la delocalizzazione ha iniziato a mostrare anche l'altra faccia della medaglia, sotto la forma di crescente perdita di posti di lavoro nei Paesi avanzati e conseguente calo della domanda, in un processo che si autoalimenta. Una parte del mondo - i Paesi industriali avanzati - consuma senza produrre, indebitandosi; un'altra parte - i Paesi emergenti/emersi - produce senza consumare, accumulando crediti che trovano allocazione nei Treasury americani e rafforzano i patrimoni dei fondi sovrani emergenti.
Un “paradigma” di crescita alquanto instabile, un “gioco” pericoloso, in cui il debitore corre il rischio di deindustrializzarsi, perdendo di conseguenza anche peso sul piano geopolitico: un processo ancora in fieri, di cui però ci sono già chiare avvisaglie guardando all'involuzione dei Paesi del G-7 rispetto alla crescita caotica ma esponenziale dei nuovi giganti su scala planetaria: Brasile, Russia, India e Cina.
Deficit: a partire dagli anni '70, con un'accelerazione negli anni '80, la crescita dei Paesi occidentali trova supporto crescente nel disavanzo di bilancio pubblico, che aumenta contestualmente all'allargamento del ruolo pubblico nella società e nell'economia: dal Welfare State che degenera in Stato assistenziale allo Stato-imprenditore che diviene sempre più esteso, vera e propria "fabbrica del consenso" che crea “posti di lavoro” di dubbia utilità, funzionali però al voto di scambio. Il deficit spending consente un incremento dei consumi nel presente, a vantaggio delle varie lobby, configurandosi però come un'imposta occulta "trasferita" sulle generazioni a venire.
Debito: il deficit annuale nel corso del tempo ha generato, nella maggior parte dei Paesi avanzati, un debito pubblico cumulato di dimensioni rilevanti, che produce interessi passivi in continua crescita. In Italia, a fine 2013, il rapporto debito/pil è salito al 133%, con un onere annuale di "servizio del debito" di 85 miliardi di euro circa: un deficit che genera debito ed un debito che genera deficit, in un circolo vizioso che si autoalimenta e viene tenuto a freno con un’imposizione fiscale da record mondiale. Mentre in Italia il fardello del debito pesa principalmente sullo Stato, in altri Paesi il debito grava maggiormente sulle famiglie, sulle imprese o sul sistema bancario.
Al di là delle varie composizioni tra i “soggetti debitori”, emerge però un nota comune: i Paesi industriali avanzati hanno supportato la propria crescita - da decenni oramai - indebitandosi.
Ora, però, i nodi sono venuti al pettine, Keynes aveva torto e gli economisti austriaci ragione: mentre il debito può essere sensato se serve a finanziare gli investimenti, certamente non lo è viene usato per coprire la spesa corrente, alimentando artificialmente i consumi. In questo caso diventa una pesante ipoteca sul futuro, cioè sulle generazioni a venire. E qui casca l'asino, perché i giovani non ci sono più.
*Analista dei mercati finanziari