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INTERVISTA A LUGARESI

«Covid, un'occasione per fare crisi nella Chiesa»

«Dopo tanto parlare di ponti l’unico interrogativo che facciamo all’altro è se ha fatto il tampone. Viviamo come i primi crisitani la cultura della separazione, che loro abbandonarono col metodo della crisi, la stessa capacità di giudizio di Paolo ad Atene e che il mondo non ha capito a Ratisbona». Vivere da cristiani in un mondo non cristiano, il libro che spiega, sull'esempio dei primi cristiani, come tutti gli imprevisti, anche il covid, possano far fare alla Chiesa una crisi. «Durante il primo lockdown la Chiesa non è stasta capace di dare ragioni per difendere il culto». Intervista allo storico Lugaresi.  

Libertà religiosa 19_12_2020

«Il covid è una occasione di fare crisi all’interno della Chiesa. Prendiamo esempio dai primi cristiani». La crisi di cui si parla è da intendere nel suo significato originale, cioè una capacità di giudicare, operando così un discrimine tra ciò che di buono il Cristianesimo può accettare di questa società e ciò che invece la Chiesa deve denunciare come non utile alla crescita dell’uomo.

È un compito elevato quello a cui vescovi e semplici cattolici sono chiamati in tempo di pandemia come questo «ma nella vicenda della chiusura delle chiese a Pasqua ho visto molta arrendevolezza», spiega alla Bussola il professor Leonardo Lugaresi (in foto), studioso di storia del cristianesimo antico e di letteratura patristica e autore del fortunato Vivere da cristiani in un mondo non cristiano: L'esempio dei primi secoli uscito per Lindau a primavera. Un libro indispensabile per capire che molte dinamiche in cui viviamo oggi sono le stesse che i primi discepoli di Cristo si sono trovati a vivere nel mondo occidentale romano. E diversa, però, è spesso anche la reazione a queste problematiche.

Professore, anche oggi il cristiano deve tornare nelle catacombe?
Prima di tutto dovremmo cercare di capire com'è un mondo completamente non cristiano.

Forse ci siamo già…
Noi cattolici in Italia viviamo ancora in una sorta di bolla per cui possiamo avere l’impressione soggettiva di vivere in un mondo ancora largamente cristiano, ma in molti paesi ormai è scomparso ogni tipo di riferimento al cristianesimo, pensiamo all’Olanda, ma non solo.

Nel libro invita a provare a immaginare di togliere tutto del cristianesimo, anche come presenza sociale: toponomastica, iconografie artistiche, lingue, calendario, qualunque tipo di riferimento: niente di niente che possa ricondurre a Gesù, come se fossimo nel 32 avanti Cristo, per capirci….
E sembra che ci stiamo arrivando: le racconto un piccolo episodio che mi è capitato recentemente.

Prego…
Nella mia città, come in molte altre, il 20 di ogni mese si dice il Rosario per i cristiani perseguitati: è un gesto significativo, che si fa in piazza, e a me personalmente richiama il fatto che nella chiesa dei primi secoli il martirio è un fattore centrale dell'autocoscienza cristiana. Ebbene, una volta è capitato che fosse di sabato pomeriggio e il centro era affollato dal passeggio pomeridiano: ora, un Rosario in una pubblica piazza è pur sempre una cosa abbastanza inconsueta, e io pensavo: qualcuno si chiederà che cosa stiamo facendo.

Invece?
A un certo punto mi sono accorto che dietro di me, c’era un gruppetto di ragazzi che parlavano a voce alta dei fatti loro. Erano così vicini che di primo acchito ho pensato che volessero disturbare ...

Irriguardosi e sacrileghi…
No, non era questo.

Perché?
Perché non c’era nessuna volontà di irridere quello che stavamo facendo: semplicemente loro non ci vedevano. Era come se per loro noi fossimo invisibili. Ecco, in quel momento ho pensato che siamo ormai in una situazione in cui anche i segni cristiani che possono ancora esserci risultano incomprensibili e insignificanti. Di fronte ad essi la gente resta indifferente. Ma non ci spaventiamo per questo.

È questo il senso del libro?
Si tratta di capire come i primi cristiani, in una situazione di ancor più radicale e competa estraneità al fatto cristiano, pur essendo un gruppo numericamente esiguo riuscirono a innervare la società a tal punto da cambiare il corso della storia.  

A proposito, quanti erano i cristiani della prima ora?
Gli storici non amano dare delle cifre perché le fonti non ci permettono di dire molto. Però è ragionevole pensare che alla fine del secondo secolo, all’epoca di Tertulliano, i cristiani potessero essere il 2 o 3 % della popolazione dell'impero. Eppure lui dice: «Siamo nati ieri e abbiamo riempito il mondo».

Non è una contraddizione?
Il fatto è che una presenza può essere minoritaria, ma culturalmente e socialmente rilevante. Del resto, anche quando Costantino, con una scelta ardita, non solo personale, ma politica da grande statista, scommette sul cristianesimo, lo fa perché è una realtà ancora minoritaria (forse il 10-15 %) ma culturalmente forte, la parte più significativa e vitale della società.

Oggi chi scommetterebbe su di noi?
Questo è il punto: il gruppo dei primi cristiani era un piccolo gruppo, ma non si è disperso né si è annullato.

Oggi siamo sia dispersi che annullati?
Una minoranza che vive in un contesto ostile può fare una di queste tre cose: assimilarsi alla cultura dominante, chiudersi o separarsi. I cristiani non hanno scelto nessuna delle tre strade, e questo è un fatto estremamente rilevante: non si sono conformati al mondo in cui vivevano, che è uno dei rischi maggiori che corriamo oggi; non si sono chiusi in un ghetto; tantomeno si sono separati dal resto del mondo andando a costruire una società alternativa e ostile.

E allora cosa è successo?
È successa la “crisi”. Cioè una grande capacità di giudizio: questo, infatti è il significato vero della parola greca krisis. La forza del cristiano è vivere nel mondo giudicandolo alla luce del Vangelo. Questo “servizio al mondo” che consiste paradossalmente nel metterlo in crisi è stata la chiave di volta della diffusione del cristianesimo, ma per poterla attuare i cristiani sono dovuti a loro volta passare attraverso una duplice crisi.

Quale?
All’inizio della loro storia i cristiani devono affrontare un doppio choc: il primo è comprendere che la fine della storia, cioè il ritorno glorioso di Cristo, non è imminente, come tutti loro all'inizio pensavano. Noi fatichiamo a capirlo, ma mettiamoci nel loro panni: è morto, è risorto e adesso ritorna, fine della storia. Cos'altro deve succedere?

Invece non è stato così…
Ai discepoli che glielo chiedono, Cristo risponde «non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta [...] ma mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,7-8). Ecco la prima grande crisi, che però riempie la storia di significato teologico, ed è la missione. Inizia la storia del difficile ma imprescindibile incontro col mondo. E qui veniamo al secondo choc.

Prego.
Il superamento della “cultura della separazione”. I primi cristiani sono tutti ebrei formati all'idea che per salvarsi, per essere fedeli alla propria identità bisogna stare separati dagli altri, non contaminarsi con i pagani.

È lo scontro tra Pietro e Paolo sulla contaminazione…
Esatto. Ebbene che cosa le fa pensare questo sull’oggi?
Cosa?
Noi eravamo abituati a sentirci estranei alla cultura della separazione, la disprezzavamo, ma da un anno a questa parte con la pandemia la stiamo vivendo di nuovo. Dopo tanto parlare di ponti e di muri da abbattere, ora l’unico interrogativo che facciamo all’altro è se ha fatto il tampone o se ha la febbre. Allora gli ebrei non entravano in casa dei pagani per paura di contaminarsi; adesso a noi viene sconsigliato addirittura di fare il brindisi di Natale per non avvicinare i bicchieri. È il trionfo della cultura della separazione, che beninteso è una cosa seria, che ha delle ragioni (e forse ora le capiamo meglio), ma il punto è che non è la strada che Dio ha voluto per i cristiani. Accettarlo è duro per loro.

Non separati, ma decisi a portare il Vangelo. Come si fa?
Come ha fatto Pietro col centurione Cornelio. Quando torna a Gerusalemme  i suoi lo contestano e la sua risposta è disarmante: se Dio ha dato anche a un pagano il dono dello Spirito, chi sono io per oppormi? (cfr. At 11,17).

Il punto è questo: se non ho neanche la cultura della separazione perché Dio mi dice che devo andare in tutto il mondo, come faccio a non contaminarmi, a non confondermi, a non perdere l’identità? O la impongo con la spada o…
Oppure scelgo la strada della crisi. Come dice la lettera a Diogneto: i cristiani sono in tutto come gli altri, solo che vivono una vita diversa. Il cristianesimo non ha divieti alimentari, la circoncisione, altri “marcatori di identità” che lo proteggano.

Come si fa allora a non essere sopraffatti?
Come lievito e come sale. È la crisi che fa la differenza, la messa a giudizio sulle cose.

Come si fa a mettere in crisi?
Accettando di farsi mettere in crisi da Dio. Come avviene, esemplarmente nell'episodio di Paolo ad Atene (At 17), che è al centro del mio libro. All’inizio Paolo prova indignazione per gli idoli dei Greci, potrebbe fermarsi lì, alla sua indignazione, ma cosa avrebbe risolto? Allora, dopo la prima reazione, l’apostolo rilancia: «Quel Dio che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio». Scava, va a fondo, dà ragioni.

Bisogna sapere trovare le parole giuste con ognuno. Con gli apache mica puoi dire queste cose…
Infatti, Paolo si mette nel loro habitat speculativo: se andate fino in fondo al vostro percorso intellettuale e religioso capirete che il Dio ignoto è inattingibile: ebbene, io posso farvelo conoscere perché si è rivelato.

Noi oggi mettiamo in crisi?
Non lo so, però sono arrivato alla conclusione che nell’attuale situazione di incertezza e di varietà di posizioni anche nella Chiesa non serva più di tanto sprecare energie nel combatterci a vicenda, ma ognuno deve tessere con il filo che ha, cioè lavorare con gli strumenti e le convinzioni di cui dispone, per un fine che io spero sia lo stesso per tutti, cioè quel compito di testimoniare Cristo fino ai confini della terra, di cui sopra si diceva. Che siamo pochi o tanti dobbiamo fare il possibile per continuare a porre un giudizio cristiano sulla realtà. Si tratta di vivere criticamente l’esperienza cristiana come un giudizio che aiuta e che serve a tutti, ognuno lo faccia come può.

Sarà, ma noi oggi vediamo tanta assuefazione al mondo…
Per certi versi è vero. Anche la Chiesa durante il primo lockdown ha barcollato: è sembrata poco capace di dare ragioni adeguate per difendere il significato e dunque la pratica del culto cristiano. Però devo dire che ultimamente mi ha molto colpito la lettera del cardinale Bassetti che dalla “cattedra” del suo letto di ospedale ci ha ridetto che l’Eucarestia è tutto. Certo se metto a confronto quella lettera con le incertezze di certi vescovi e le fughe in avanti di certo clero mi dico: lui lì ha posto un giudizio cristiano, gli altri no.

Servirebbe un bel piano di rilancio?
L’intervento di Dio nella storia non avviene per piani pastorali, scordiamoci che possa avvenire a forza di riunioni e di progetti. Negli Atti vediamo che la storia cristiana si sviluppa grazie  alla sfida di eventi anche imprevisti.

Come il covid?
Sì. Dio agisce attraverso fatti che accadono. Per esempio, Gesù in Atti 1,8 che ho citato prima dice ai suoi discepoli di andare fino ai confini della terra. Ma loro all'inizio si fermano a Gerusalemme.  È quando a Gerusalemme c’è la persecuzione che almeno una parte della comunità se ne deve andare comincia la missione fuori. La persecuzione è sempre provvidenziale perché induce a fare passi che “a tavolino” non si sarebbero fatti. Oppure guardiamo la storia delle missioni paoline: succedono delle cose, degli imprevisti che mettono in crisi Paolo.

C’è una crisi che la Chiesa non ha voluto fare?
Sì, il 12 settembre 2006.

A Ratisbona?
Sì. Il discorso di Benedetto XVI è stata una grandiosa operazione di crisi cristiana, che purtroppo non è stata capita nemmeno all’interno della Chiesa. Certo, il mondo non capì e ci fu quell’assalto inverecondo da parte dei media, ragli d’asino si levarono al cielo. Ma tutti siamo stati responsabili nel non capire che quei punti posti da Ratzinger sulla fede, la ragionevolezza, la violenza, andavano approfonditi e difesi a spada tratta. Oggi a distanza di tanti anni cominciamo forse a capire quanto quel discorso fosse straordinario come capacità di crisi, cioè di giudizio.

Ma chi metteva in crisi Ratzinger?
Ratisbona realizzava una doppia dimensione della crisi: da una parte quella dell’Islam ma dall'altra quella del razionalismo occidentale:  mostrava come entrambe quelle posizioni fossero in difetto nei confronti della verità, non era un attacco, era un esercizio di crisi. Esattamente come quello di Paolo ad Atene.  

Il suo discorso sui primi cristiani che partivano, diciamo così da zero, si scontra col fatto che oggi noi non abbiamo una prateria da conquistare, ma viviamo una scristianizzazione continua.
Guardi, la storia vive in continuazione momenti di cristianizzazione e di decristianizzazione.

Più che costruire bisogna ricostruire: abbiamo solo macerie.
È vero, possiamo avere questa impressione, ma attenzione: la cattedrale del cristianesimo, per usare un'altra immagine di sapore medievale, non è mai stata integra e perfetta. Sempre, dove si tirava su da una parte veniva giù dall’altra.

È vero, ora che si finisce di restaurare la facciata e magari ci vogliono dieci anni, si rimonta il cantiere nell’abside…
Lo vede? La chiesa è continuamente puntellata dalle impalcature. Più che un ospedale da campo allora, direi che somiglia a un cantiere che non finisce mai.