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Covid in corsia, ci mancava la barbarie mediatica

Ieri è stato un giorno davvero molto triste per l’informazione professionale. La diffusione del video del malato deceduto al Cardarelli di Napoli da parte di molti siti web informativi e di alcuni telegiornali nazionali è uno dei punti più bassi toccati dal giornalismo durante la pandemia. In nome della “divinizzazione” della scienza e della assolutizzazione del diritto alla salute, alcuni giornalisti hanno deciso di partecipare come spettatori passivi al Festival della virologia a reti unificate.

Attualità 13_11_2020

La drammatizzazione della pandemia da parte dei mezzi d’informazione mainstream appare irrefrenabile. Ogni giorno la cronaca dagli ospedali ci propone scenari apocalittici e senza contraddittorio, che esasperano un clima sociale già tesissimo e alimentano la sfiducia dei cittadini, accentuandone il disagio psichico e mentale.

Legittimo, beninteso, essere preoccupati della situazione che si è creata. Le carenze dimostrate da Governo e Regioni nel prevenire l’attuale seconda ondata del Coronavirus, che avrebbe potuto essere gestita decisamente meglio ricorrendo per tempo, tra le altre cose, all’ampliamento dei servizi ospedalieri, al potenziamento del personale medico e infermieristico, alla definizione di protocolli per i medici di famiglia e all’utilizzo domestico dei farmaci anti-covid, stanno certamente alimentando apprensioni. Ma il ruolo dei media non è quello di alimentare pulsioni disfattiste e autodistruttive. Occorre invece diffondere messaggi costruttivi e di speranza, senza negare le difficoltà del momento e la necessità di essere cittadini disciplinati e rispettosi delle regole.

Ieri è stato un giorno davvero molto triste per l’informazione professionale. La diffusione del video del malato deceduto al Cardarelli di Napoli da parte di molti siti web informativi e di alcuni telegiornali nazionali (ma ad esempio il Tg1 e i notiziari di SkyTg24 hanno deciso di non trasmetterlo) è uno dei punti più bassi toccati dal giornalismo durante la pandemia. La direzione di quell’ospedale ha avviato un’indagine interna per stabilire le cause del decesso e individuare chi abbia girato il video. Ma non basta. Occorre una indignazione ferma e decisa da parte dei vertici nazionali dell’Ordine dei giornalisti nei confronti di tutti gli iscritti che lo hanno diffuso e condiviso. Si tratta di una grave violazione deontologica e di un imperdonabile vulnus alla dignità della persona, che l’informazione di qualità deve rispettare in maniera prioritaria, inderogabile e senza tentennamenti.

Si tratta di un episodio molto grave che richiama le responsabilità del giornalismo in questa seconda fase di pandemia. A marzo e aprile i giornalisti hanno raccontato la pandemia dai luoghi della sofferenza e del contagio, consentendo ai cittadini di essere correttamente informati e di evitare comportamenti inopportuni e dannosi per la salute. Dopo la prima ondata, però, sembra essersi appannato l’ideale dell’informazione di pubblica utilità. Da settembre in poi il sensazionalismo è diventato dilagante nell’informazione mainstream e i giornalisti sono apparsi in molti casi megafoni acritici di opinioni altrui.

In nome della “divinizzazione” della scienza e della assolutizzazione del diritto alla salute, alcuni giornalisti hanno deciso di partecipare come spettatori passivi al Festival della virologia a reti unificate, limitandosi a registrare opinioni, chiacchiere, annunci e bisbigli e appiattendosi su protocolli e rappresentazioni puramente quantitative del fenomeno Covid. Occorre al più presto riscoprire i valori della verifica e della comparazione dei dati, del vaglio critico e pluralista delle fonti e dell’autonomia e dell’equilibrio del racconto, elementi imprescindibili della buona informazione rispettosa della deontologia professionale.

Nelle ultime settimane sono state pochissime le ricostruzioni puntuali dell’andamento della pandemia e non ci sono stati reportage sui farmaci anti-covid utilizzati da migliaia di medici per curare a casa i malati di Covid, né alcun approfondimento sugli anticorpi monoclonali. E che dire dei famosi 21 parametri che le autorità sanitarie hanno deciso di adottare per stabilire le restrizioni nelle diverse aree del Paese: chi li ha spiegati con taglio divulgativo ai cittadini al fine di non alimentare polemiche, divisioni, gelosie, rivendicazioni da parte degli abitanti delle zone rosse nei confronti di quelli delle zone gialle o arancioni?

Tra i talk show certamente si distingue per equilibrio Porta a Porta, che non sposa alcuna tesi preconcetta e alimenta un dibattito pluralista, ragionato e ancorato a dati oggettivi e non appiattiti sulle narrazioni ufficiali. Due sere fa Bruno Vespa ha intervistato un medico di base che dall’inizio della pandemia cura i suoi pazienti Covid a casa, con farmaci ormai collaudati (cortisone, eparina e altri) e ha ricordato che in importanti presidi ospedalieri di Milano e Roma, ma è ragionevole pensare che la situazione sia abbastanza simile anche nel resto d’Italia, due soggetti su tre che arrivano al pronto soccorso sono codici verdi, dunque non bisognosi di cure ospedaliere e solo 7 su 100 codici rossi, cioè in condizioni tali da suggerire una loro permanenza in ospedale. Perché non responsabilizzare, allora, i 44.000 medici di base al fine di frenare il flusso frenetico e indiscriminato di presunti malati gravi verso i nosocomi, presi d’assalto spesso immotivatamente?

Tra gli errori dei media c’è anche l’ossessiva e acritica divulgazione dell’ufficiale contabilità quotidiana di contagi, ricoveri e decessi, che appare fuorviante perchè fotografa solo in parte l’evoluzione del Covid e non consente raffronti, comparazioni, analisi dettagliate dei profili dei positivi al virus, dei ricoverati in ospedale e delle vittime di queste settimane, in larghissima parte affette da almeno tre patologie e con età superiore agli 80 anni, come documentato dall’Istituto superiore della sanità. Una grande operazione di verità e trasparenza dovrebbe partire dalle istituzioni politiche centrali e coinvolgere regioni ed enti locali. L’informazione, come cane da guardia, avrebbe dovuto propiziarla, invece continua ad andare a rimorchio degli eventi e ad alimentare un allarmismo devastante per la psiche delle persone e per la tenuta della società e delle istituzioni.