Costa d'Avorio, un Paese nel caos
Continua il braccio di ferro tra i due "presidenti": ora è davvero alto il rischio di una guerra civile
Quattro stati sull'orlo del baratro,
di A.Bono
Continua in Costa d’Avorio la prova di forza tra Alassane Ouattara e Laurant Gabgbo, i due candidati alla presidenza proclamati entrambi vincitori all’indomani del ballottaggio del 28 novembre. Il paese è diviso. Per metà ha festeggiato la vittoria di Gabgbo, il presidente in carica. Ma nel nord, controllato dal 2002 dalle forze antigovernative che nel settembre di quell’anno tentarono, fallendo, un colpo di stato, prevale invece il sostegno a Ouattara, lo sfidante, forte dell’alleanza elettorale offertagli da Guillaume Soro, l’ex capo dei ribelli, in cambio della quale quest’ultimo ha ottenuto la nomina a primo ministro.
Il mondo, invece, si è schierato quasi unanime con Ouattara. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato una risoluzione che lo riconosce come legittimo presidente. Il Consiglio di Sicurezza ONU ha poi deciso all’unanimità di rinnovare e rafforzare la Onuci, la missione di peacekeeping inviata, dopo il tentato colpo di stato, a presidiare la linea di confine che da allora divide in due il territorio ivoriano. Inoltre il 29 dicembre il Palazzo di Vetro ha accreditato l’ambasciatore all’ONU designato da Ouattara nonostante che Gbagbo avesse annunciato il giorno precedente l’intenzione di interrompere i rapporti diplomatici con qualsiasi stato e organismo che riconosca i rappresentanti nominati da Ouattara.
La Ecowas, organismo economico dell’Africa occidentale di cui la Costa d’Avorio fa parte, ha inviato tre mediatori, ma si prepara a un intervento militare nel caso in cui Gbagbo non rinunci alle proprie rivendicazioni. L’Unione Africana ha sospeso la Costa d’Avorio, in attesa del ripristino delle istituzioni democratiche, e ha incaricato come proprio mediatore il primo ministro del Kenya, Raila Odinga. Stati Uniti e Francia sono anch’essi schierati con Ouattara: Parigi ha annunciato il blocco dei conti bancari di Gbagbo e sanzioni. Per inciso va detto che l’ex madre patria non ha dato buona prova in questa lunga crisi. Subito dopo il colpo di stato del 2002 la Francia si attivò per la creazione un governo di transizione aperto ai golpisti ai quali propose di affidare il ministero della difesa e quello degli interni: significava consegnare ai ribelli il comando delle forze di sicurezza e dell’esercito, cosa che ovviamente Gbagbo non poteva accettare. Nel 2004 inoltre la missione Licorne, il contingente militare francese in Costa d’Avorio, reagì brutalmente ad alcune manifestazioni popolari antifrancesi abbattendo la flotta aerea militare del paese e sparando sulla folla: fu una strage.
Tornando ai giorni nostri, l’Unione Europea ha riconosciuto la vittoria di Ouattara e ha proposto il 29 dicembre sanzioni nei confronti di Gbagbo e di 61 suoi stretti collaboratori: provvedimenti che entreranno in vigore il mese prossimo, dopo che i 27 stati membri li avranno approvati.
L’esito di queste iniziative è molto incerto. Il rischio di una guerra civile cruenta e devastante è elevato. Potrebbe essere scongiurato dalla scelta di Gbagbo di farsi da parte oppure, come in altri casi analoghi, dalla costituzione di un governo di unità nazionale che comprenda entrambi gli schieramenti: un rimedio, quest’ultimo, che ONU, Unione Africana, UE e altri organismi regionali hanno in passato sollecitato e poi accolto con entusiasmo come un successo della diplomazia e della democrazia. Nel 2008 in Kenya un governo di unità nazionale mise fine alle stragi tra i sostenitori di Mwai Kibaki e Raila Odinga, entrambi proclamatisi vincitori delle elezioni presidenziali, assegnando al primo la presidenza e al secondo la premiership. Pochi mesi dopo in Zimbabwe il presidente sconfitto, Robert Mugabe, deciso a non cedere il potere malgrado l’esito elettorale sfavorevole, si accordò dopo mesi di scontri e di intimidazioni con il vincitore, Morgan Tswangirai: Mugabe rimase capo di stato e Tswangirai fu nominato primo ministro.
Ma per la Costa d’Avorio tutti – ed è una responsabilità enorme – sembrano escludere questa opzione benché sembri la più collaudata: “abbiamo già visto che questi governi di unità nazionale non funzionano – ha spiegato il leader della Nigeria, Goodluck Jonathan, presidente di turno della Ecowas – in Costa d’Avorio ci sono state delle elezioni e c’è qualcuno che ha vinto”.
In realtà i governi di unità nazionale funzionano, per quel che ci si aspetta realmente da loro: non necessariamente buon governo e cura del bene comune, ma una contrattata spartizione delle cariche tra i contendenti, in paesi in cui il controllo dell’apparato statale continua è essere inteso come strumento per accedere alle ricchezze nazionali e disporne a discrezione, arricchendo se stessi e il proprio seguito di familiari e alleati.
La riflessione di fondo che nasce dall’analisi del caso della Costa d’Avorio è che sta diventando sempre più pericoloso accettare come democrazia reale l’uso che si fa in Africa delle istituzioni democratiche, spesso ridotte a meri simulacri. Anche nella migliore delle ipotesi, dalla crisi ivoriana la democrazia uscirà sconfitta ed è tanto se si eviteranno stragi.
L’errore di fondo è stato pensare che nel paese vi fossero le condizioni necessarie per andare al voto. Chi controlla il nord ne ha approfittato per orientare il voto in favore di Ouattara, nel resto del paese il governo ha fatto altrettanto per ottenere la riconferma di Gbagbo. Ecco perché nessuno pensa alla soluzione più ovvia, prevista tra l’altro dalla costituzione ivoriana all’articolo 61: tornare al voto almeno nei distretti in cui si sono verificati i brogli più evidenti. Non servirebbe a nulla.