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KABUL

Cosa resterà di questa Nato dopo l'Afghanistan

Ufficialmente, nell’ultimo vertice dell’Alleanza Atlantica, il segretario generale Jens Stoltenberg ha attribuito la colpa principale del disastro agli afgani. Ma i malumori espressi, più o meno apertamente, dai capi di governo e di Stato dei Paesi membri, mostrano quanta sfiducia si sia creata nei confronti degli Stati Uniti.

Esteri 23_08_2021
Jens Stoltenberg

Cosa resterà di questa Nato, dopo il ritiro dall’Afghanistan? Ufficialmente, nell’ultimo vertice dell’Alleanza Atlantica, il segretario generale Jens Stoltenberg ha attribuito la colpa principale del disastro agli afgani. Ma i malumori espressi, più o meno apertamente, dai capi di governo e di Stato dei Paesi membri, mostrano quanta sfiducia si sia creata nei confronti degli Stati Uniti.

«Quanto accade è una tragedia per gli afghani. La situazione in Afghanistan resta difficile ed imprevedibile. La priorità assoluta della Nato è trasferire la gente fuori dal Paese. La principale sfida che affrontiamo è fare in modo che le persone possano raggiungere ed entrare nell'aeroporto di Kabul», ha dichiarato Stoltenberg a conclusione del vertice dei ministri degli Esteri. Quanto alla responsabilità della tragedia, «Quello che abbiamo visto nelle ultime settimane è stato un collasso militare e politico non prevedibile. La leadership politica afgana ha fallito nel trovare una soluzione politica e questo fallimento porta alla tragedia a cui stiamo assistendo oggi». Quanto alle responsabilità della Nato, «Nonostante l'investimento considerevole il crollo è stato rapido. Dobbiamo imparare la lezione». Anche perché la missione di addestramento dell’esercito e della polizia nazionali afgane spettavano proprio alla Nato, sin dall’inizio della missione.

Il non-detto emerge da interviste e dichiarazioni dei leader europei della Nato, sconcertati, come tutti, dall’improvvisazione e approssimazione dimostrate dall’amministrazione americana. Boris Johnson, secondo fonti del Wall Street Journal, avrebbe chiesto invano di parlare al telefono con Joe Biden, rimanendo in attesa per un giorno e mezzo. Il presidente era letteralmente irreperibile nei giorni più tragici della presa del potere dei Talebani in Afghanistan, non solo per i giornalisti, ma, evidentemente, anche per gli alleati europei. Parole durissime, nei suoi confronti, sono state espresse dal segretario alla Difesa britannico, Ben Wallace, che ha definito l’accordo con i Talebani un “trattato schifoso”. Tom Tugendhat, presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Comuni, ha definito “una vergogna” il tentativo di Biden di scaricare sugli afgani la colpa della sconfitta.

La cancelliera tedesca Angela Merkel è l’unica a capo di un governo Nato che ha esplicitamente ammesso l’errore, anche se ha distribuito la responsabilità fra tutti gli alleati («Una valutazione sbagliata. Non una valutazione sbagliata tedesca, ma una valutazione sbagliata comune»). In privato, secondo fonti giornalistiche tedesche, avrebbe detto ai suoi colleghi di governo e di partito che la ritirata di Biden sarebbe motivata dalla politica interna americana. Armin Laschet, suo probabile successore, la definisce «la più grande sconfitta della Nato sin dalla sua fondazione, ora siamo di fronte a un cambiamento epocale».

Macron stava letteralmente aspettando che il cadavere passasse sul fiume. Già nel 2019, infatti, affermava che la Nato potesse finire in “morte cerebrale”. Allora c’era ancora l’amministrazione Trump, alla testa degli Usa, ma faceva un discorso più di lungo periodo: con i Repubblicani o con i Democratici, gli Usa sarebbero diventati comunque un alleato sempre meno affidabile per gli europei. Quindi proponeva di «rivedere quel che la Nato è oggi, alla luce dell’impegno degli Stati Uniti».

Comunque è curioso constatare come, per quattro anni, gli alleati europei degli Usa abbiano temuto che Trump demolisse la Nato. Sono bastati sette mesi di amministrazione Biden per assistere a una ritirata della missione dell’Alleanza dall’Afghanistan decisa in modo pressoché unilaterale dalla sua amministrazione democratica. Tony Blair, ex premier britannico che la guerra la iniziò, nel 2001, all’indomani dell’11 settembre, assieme a George W. Bush, lamenta che ormai l’Occidente manchi di una sua visione strategica di lungo periodo.

«I politici occidentali non riescono nemmeno ad accettare di chiamarlo “islam radicale” – scrive l’ex premier britannico sul sito della sua fondazione (in lingua italiana lo potete trovare qui) - Preferiamo identificarlo come un insieme di sfide sconnesse, ciascuna da affrontare in sede separata. Se l’avessimo definita una sfida strategica, e l’avessimo vista nel suo insieme e non frazionata in parti, non avremmo mai preso la decisione di ritirarci dall’Afghanistan. Il nostro pensiero è impostato male in rapporto all’Islam radicale. Il comunismo rivoluzionario lo abbiamo riconosciuto come una minaccia di natura strategica, che ci ha richiesto di affrontarlo sia ideologicamente che con misure di sicurezza. Durò più di 70 anni. Per tutto quel tempo, non ci saremmo mai sognati di dire: “Beh, ce ne siamo occupati da molto tempo, dovremmo semplicemente arrenderci”». «Questo è ciò che dobbiamo decidere ora a proposito l’Islam radicale. È una minaccia strategica? – si chiede Blair - Se è così, come si uniscono coloro che vi si oppongono, anche all’interno dell’Islam, per sconfiggerlo?».