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NIGERIA

Corruzione e complicità, così cresce Boko Haram

A tre giorni dall’attacco al centro balneare di Gran Bassam, in Costa d’Avorio, il 16 marzo il jihad ha fatto nuove vittime. Questa volta fedeli islamici riuniti in moschea per le preghiere del mattino. È successo in Nigeria, a Maiduguri, capitale dello Stato di Borno. Si è trattato di un attentato suicida compiuto da due donne. 

Esteri 18_03_2016
Gli effetti di un attacco kamikaze in Nigeria

A tre giorni dall’attacco al centro balneare di Gran Bassam, in Costa d’Avorio, il 16 marzo il jihad ha fatto nuove vittime. Questa volta si tratta di fedeli islamici riuniti in moschea per le preghiere del mattino. È successo in Nigeria, a Maiduguri, capitale dello stato di Borno. Si è trattato di un attentato suicida compiuto da due donne. Una, travestita da uomo per essere ammessa alla moschea, si è fatta esplodere tra i fedeli. L’altra, rimasta fuori, per saltare in aria ha aspettato che i superstiti uscissero cercando scampo. I morti sono 21 e i feriti almeno 18. 

A colpire in Costa d’Avorio è stato Aqmi, Al Qaida nel Maghreb islamico. In Nigeria è praticamente certo che dell’attentato sia responsabile Boko Haram, il gruppo jihadista da un anno alleato dell’Isis. Boko Haram combatte per liberare il nord islamico della Nigeria dai cristiani e per imporre nel Paese la legge coranica, nella forma più rigorosa e intransigente, il che spiega come mai colpisca anche degli islamici ai quali rimprovera una devozione imperfetta, che va corretta e punita. Dal 2009 ha ucciso 20.000 persone, ne ha rapite migliaia, ha distrutto centinaia di villaggi, contando su complicità tra la popolazione e soprattutto sulla a dir poco debole reazione del governo. 

Nel 2014 era persino riuscito a conquistare un territorio esteso comprendente città e villaggi. Ne ha perso poi gran parte in seguito all’intervento militare del vicino Ciad. In compenso ha intensificato gli attacchi ai villaggi e gli attentati dinamitardi, quasi tutti suicidi, affidati a donne e bambine e ha esteso il proprio raggio di azione agli Stati confinanti fino a costituire una minaccia regionale. Per il momento, neanche gli 8.700 militari della forza multinazionale creata da Nigeria, Ciad, Camerun e Niger per contrastarlo sembra efficace.  

Da marzo la Nigeria ha un nuovo presidente, Muhammadu Buhari. Subito dopo la sua elezione, Buhari ha promesso la fine di Boko Haram entro novembre. A maggio ha annunciato di aver dato tempo all’esercito fino a dicembre per sconfiggerlo. A ottobre ha spiegato il moltiplicarsi di attentati come un’ultima, disperata reazione del gruppo armato decimato, assicurando che era ormai incapace di «attacchi convenzionali». Infine, a dicembre, ha dichiarato che la Nigeria aveva «tecnicamente vinto la guerra» contro Boko Haram.

Poche ore dopo l’attentato alla moschea di Maiduguri, via twitter Buhari ha espresso costernazione per «l’attacco a dei  fedeli innocenti» e ha invitato i nigeriani a non abbassare la guardia, a fare attenzione specie nei luoghi pubblici. Non ce n’era proprio bisogno. Nel Nordest, persino per andare al mercato la gente si fa perquisire sapendo che molti attentati suicidi prendono di mira mercati e stazioni di autobus. I cristiani, poi, ogni domenica in prossimità delle loro chiese si mettono in fila per farsi perquisire dai volontari dei gruppi di autodifesa mentre altri volontari sistemano barriere per impedire l’accesso ad automezzi che potrebbero essere carichi di esplosivo. 

Per capire come possa un gruppo armato radicarsi così profondamente e prevalere sugli eserciti di quattro nazioni occorre considerare un più ampio scenario. Non solo Boko Haram, che conta molte migliaia di miliziani, ma anche formazioni più piccole – dell’ordine di centinaia di combattenti soltanto – operano da anni, abbandonando un territorio divenuto insicuro per ricostituirsi altrove, scambiando uomini, armi, informazioni con altri gruppi, finanziandosi con rapimenti e altre attività illegali condotte con organizzazioni di trafficanti di armi, droga, uomini e prodotti di bracconaggio. Possono farlo perché glielo consentono dei governi sostanzialmente disinteressati a fermarli, incuranti della sicurezza e dell’ordine pubblico se non nei maggiori centri urbani e nelle regioni ricche di risorse naturali e che lasciano quindi incustoditi vasti territori, in cui jihadisti e altre organizzazioni creano le loro basi, e migliaia di chilometri di frontiere, attraverso i quali transitano clandestinamente uomini e merci.  

L’altro elemento a favore dei jihadisti è la corruzione. In Nigeria, almeno per ora, il presidente Buhari sembra intenzionato a combatterla, come aveva promesso in campagna elettorale, e viene alla luce uno scandalo dopo l’altro: migliaia di dipendenti pubblici fantasma regolarmente retribuiti, bambini di nove anni titolari di stipendi da insegnante... Quello più recente riguarda l’ente petrolifero nazionale. Nel 2014 ha omesso di versare nelle casse statali 16 miliardi di dollari, su un incasso di 77 miliardi. Non si tratta di un caso isolato. Due anni fa il governatore della Banca Centrale Sanusi Lamido Sanusi aveva denunciato un ammanco di 20 miliardi di dollari, con il solo risultato di perdere il posto. 

La corruzione è uno dei fattori che ostacolano lo sviluppo. La Nigeria è il primo produttore di petrolio del Continente africano, ma oltre il 60% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. È una situazione che favorisce il reclutamento nelle fila di Boko Haram, specie tra i giovani: non necessariamente convinti alla guerra santa, ma perché attratti dalla prospettiva di un buon salario.  Inoltre, non c’è settore che si salvi dalla corruzione. I soldati nigeriani hanno spesso protestato per la mancanza di mezzi per affrontare i jihadisti meglio armati di loro. Tra gli scandali emersi, c’è quello che coinvolge alte cariche politiche e militari, relativo allo storno di 2,1 miliardi di dollari stanziati per l’acquisto di armi per i militari impegnati a combattere Boko Haram. Sono stati spesi in ville, automobili e altri lussi.