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L'EDITORIALE

Corno d'Africa alla fame: non è solo questione di soldi

Concentrarsi unicamente sulla raccolta di fondi come se il persistere della fame dipendesse soltanto dall'egoismo dei paesi occidentali, forse ci fa sentire più buoni, ma non aiuta a superare questa continua emergenza, che ha radici locali.

Editoriali 21_07_2011

Il mondo si sta mobilitando per soccorrere il Corno d’Africa ancora una volta colpito da carestia, questa volta a causa di una persistente siccità, e intanto si interroga sulle cause di una catastrofe di tali proporzioni: colpa dei cambiamenti climatici – si legge di frequente sulla stampa italiana e internazionale – con l’aggravante di una domanda crescente di alcuni raccolti – ad esempio, quelli utilizzati per la produzione di biocarburante – che ne fa lievitare i prezzi sui mercati internazionali. In più c’è la crisi internazionale che oltre tutto rende “avari” i governi dei paesi industrializzati: avevano promesso aiuti ai paesi poveri e adesso non sono in grado di mantenere fede agli impegni. 

Questi e tutti gli altri fattori ritenuti responsabili della crisi in corso non vanno però alla radice del problema di cui costituiscono soltanto un’aggravante.

Le popolazioni africane che per scelta o per necessità continuano a praticare economie di sussistenza sono per forza impotenti di fronte ai fenomeni atmosferici avversi e incapaci di incidere su eventi economici e politici del tutto fuori della loro portata. Neanche al meglio delle condizioni, cacciatori-raccoglitori, pastori e agricoltori muniti di zappa e poco più sono in grado di dotarsi di ambienti sicuri e salubri in cui abitare, di acqua potabile e corrente, di luce elettrica, fognature, cure mediche, istruzione scolastica. Tanto meno possono permettersi complesse terapie, occhiali, protesi dentarie, interventi chirurgici. Il paradosso è che neanche le buone annate servono a molto.

Troppo poveri per dotarsi di sistemi di conservazione dei raccolti, privi delle più semplici tecniche di trasformazione dei prodotti, troppo distanti dai principali mercati, la maggior parte degli africani che vivono nelle regioni costantemente a rischio di carestia lasciano ai parassiti e alle intemperie i raccolti che non riescono a consumare e a commercializzare. La successiva stagione di crisi li vede sprovvisti di risparmi e di riserve alimentari.

Così si spreca in Africa fino al 60% dei raccolti.

Chi si batte affinché le comunità tribali possano continuare a vivere
seguendo le loro tradizioni millenarie deve mettere in conto il fatto che dipendano perciò sempre da costanti e perenni apporti esterni e, nelle stagioni peggiori, da aiuti d’emergenza per la stessa sopravvivenza.
Dovrebbe essere il governo del paese in cui vivono a provvedere, attingendo alle casse statali e organizzando appropriati servizi assistenziali. Ma in Africa spesso non succede, neanche quando i governi dispongono di immense risorse naturali e di inesauribili contributi internazionali.

In Mozambico, ad esempio, dall’inizio dell’anno è stato autorizzato l’uso di prodotti scaduti per sopperire alla diffusa carenza di medicinali. In Kenya, proprio nelle regioni settentrionali oggi più colpite dalla carestia, mancano addirittura gli anestetici e molti interventi chirurgici si effettuano perciò senza anestesia. Lo ha rivelato nei giorni scorsi l’organizzazione non governativa Kenya Treatment Access Movement incolpando di ciò l’altissimo livello di corruzione.
In Somalia, il paese in cui gran parte della popolazione è alla fame, dal 2004, quando faticosamente i capi clan sono stati persuasi dalla comunità internazionale a formare le attuali istituzioni politiche di transizione, governo, parlamento e presidenza non fanno che scontrarsi, aprire crisi, costituire e rompere alleanze. L’ultima crisi politica si è appena conclusa con le dimissione forzate del primo ministro Mohammed Abdulahi Mohammed dopo una lunga prova di forza con il presidente del parlamento Sheikh Aden e il capo dello stato Sheikh Ahmed che lo scorso giugno, a Kampala, Uganda, hanno concordato di prorogare di un anno le istituzioni di transizione, ma di sciogliere entro 30 giorni il governo.

Il mese prossimo si sarebbero dovute svolgere le elezioni previste dagli accordi di pace del 2004 firmati a Nairobi, Kenya. Da tempo però era evidente che sarebbe stato impossibile portare alle urne la popolazione. Le principali città e intere regioni sono in mano ai capi clan che negli anni hanno scelto di lasciare il governo per creare movimenti armati, il più potente dei quali si chiama Shebab e controlla anche diversi quartieri della capitale Mogadiscio.

Molti somali non sanno che cosa significhi davvero la parola pace. Sono nati dopo il 1991, l’anno in cui il presidente Siad Barre fu costretto all’esilio dai principali capi clan: alleati per sconfiggerlo, ma da allora in lotta per il potere e per i benefici che ne derivano, incapaci di concepire un governo condiviso e gestito nell’interesse di tutti.

È emerso di recente che mancano i resoconti relativi a uno degli ultimi contributi forniti alla Somalia dalla comunità internazionale che continua a sostenere finanziariamente le istituzioni di transizione mentre una missione militare dell’Unione Africana, la Amisom, ne assicura a stento l’incolumità pattugliando i quartieri della capitale in cui hanno sede. Si è persa traccia di 75 milioni di dollari erogati tra il 2009 e il 2010. A eccezione di tre milioni, non esiste alcuna documentazione sull’uso che le cariche politiche ne hanno fatto.

Concentrarsi dunque unicamente sulla raccolta di fondi come se il persistere della fame dipendesse soltanto dall'egoismo dei paesi occidentali, potrà forse servire a sentirsi a posto con la coscienza, ma certamente non aiuta a superare questa continua emergenza. I soldi sono necessari, ma per aiutare lo sviluppo bisogna sapere come usarli.