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EGITTO

Copti uccisi in odio alla fede al monastero del santo confessore

Il monastero di san Samuel, monaco "confessore della fede" del VI-VII Secolo che aveva resistito alla persecuzione di bizantini e beduini, è diventato teatro della strage dei copti a Minya, Egitto. Uccisi da un commando jihadista dopo che avevano rifiutato di abiurare la fede. Il bilancio ufficiale parla di 28 morti, fra cui molti bambini. La precisa intenzione dei jihadisti era quella di insanguinare il Ramadan, che iniziava ieri.

Libertà religiosa 27_05_2017
Minya, vittime

Aveva resistito a violenze di ogni tipo il monaco Samuel. Tra il VI e VII secolo questo santo copto aveva dovuto fare i conti prima con i bizantini e poi - sul monte Qalamoun - anche con i beduini. Ma il padre del deserto, saldo nella sua fede, si era rivelato più forte di entrambi. E per questo ancora oggi i cristiani d'Egitto lo venerano come «confessore della fede». Neanche il grande patriarca, però, avrebbe mai potuto immaginare che un giorno, sulla pista nel deserto che porta al suo monastero, i persecutori si sarebbero accaniti persino contro i bambini. Compreso un piccolo di appena 2 anni, anche lui di nome Samuel.

Sì, sono proprio i martiri bambini il volto più crudo del nuovo eccidio contro i copti, consumatosi ieri nella regione di Minya, nell'Alto Egitto. La quarta strage in meno di sei mesi dopo quella del Cairo a dicembre e le due di Tanta e Alessandria nella domenica delle Palme. Senza contare gli otto cristiani uccisi uno alla volta ad al Arish, nel nord del Sinai, e il tentativo di assalto al monastero di Santa Caterina, uno dei tesori più preziosi del cristianesimo d'Oriente. Eppure - se possibile - stavolta è stato ancora più terribile. Perché tra le vittime - 28 il bilancio ufficiale a ieri sera, più un'altra ventina di feriti - tanti sono i ragazzini. C'erano soprattutto loro - infatti - nel convoglio di pellegrini copti che il commando jihadista ha preso di mira con la precisa intenzione di insanguinare l'inizio del Ramadan, il mese sacro per i musulmani. A salire in pellegrinaggio al monastero erano un pullman di famiglie della zona di Beni Suef, un minivan carico di bambini di un parrocchia di Maghagha e un pick-up con un gruppo di lavoratori di un altro villaggio della zona di Minya. Uno spaccato di quell'Alto Egitto che è il cuore della Chiesa copta; in alcune zone, qui, i cristiani arrivano a toccare anche il 40 per cento della popolazione. Non a caso è la stessa regione dove nell'estate del 2013 furono più violenti gli attacchi contro le chiese, dopo la deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi. La zone ideale da colpire per chi - come afferma l'Isis - si propone di sradicare i cristiani dall'Egitto.

Così, mentre saliva verso il monastero, il convoglio si è trovato sbarrato il percorso da tre fuori strada carichi di miliziani in divisa, spuntati dal deserto. Secondo le testimonianze hanno fatto scendere tutti e li hanno depredati; poi hanno chiesto ai cristiani di rinunciare alla propria fede e di fronte al rifiuto hanno cominciato a sparare. Perché il legame con l'inizio del Ramadan fosse chiaro a tutti, poi, hanno lasciato sul posto anche dei volantini con la frase «un digiuno gradito a Dio cancella tutti i peccati», frase che tutti i musulmani amano ripetere (con benaltro significato) durante il mese sacro.

Non sono riuscito a ricostruire di preciso quante delle 28 vittime siano bambini. Ma le proporzioni le ha date indirettamente una fotografia diffusa dal sito di informazione copto Watani: ritrae il vescovo di Maghagha, l'anba Agathon, insieme a tre piccoli dallo sguardo spaurito e con le magliette sporche di sangue. Quei tre sono Bishoi, Fadi e Amir; e Watani spiega che sono gli unici bambini sopravvissuti del gruppo partito la mattina per recarsi al monastero di San Samuel.

Come al solito dopo la nuova strage in Egitto è arrivato il coro delle condanne. Accompagnato dalle polemiche per l'evidente incapacità delle forze di sicurezza egiziane di fornire protezione ai cristiani, nonostante lo stato di emergenza decretato dopo le stragi di aprile. Anche per questo ieri sera il presidente al Sisi ha scelto la strada dei raid aerei: ha mandato l'aviazione a bombardare le postazioni dell'Isis a Derna, in Libia. Contemporaneamente è apparso in televisione per dire che la strategia dei jihadisti è seminare discordia tra cristiani e musulmani e che il fine ultimo è abbattere lo Stato egiziano. «Sono ormai finiti in Siria e adesso vogliono venire qui - ha detto il generale presidente -. Ma noi li colpiremo nei loro campi di addestramento in Egitto e anche fuori».

Nel caos libico è difficile pensare che questi raid dimostrativi possano produrre qualcosa di significativo. Perché il problema vero di al Sisi non sta tanto all'esterno dei confini, ma dentro il suo Egitto: nel Sinai che resta ampiamente fuori controllo e ora anche nell'Alto Egitto, guarda caso già roccaforte dei Fratelli Musulmani. È lì che i copti oggi piangono i loro martiri bambini. Ennesimo banco di prova di una fede forte che non è certo finita con il santo Samuel.