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L'EDITORIALE

Contro l'evasione fiscale, contro lo Stato rapinatore

Anche se emergesse tutto il "nero" e i servizi statali funzionassero resterebbe l’ingiustizia di uno Stato che occupa settori non suoi facendone pagare i costi alla società impoverita e deresponsabilizzata.

Editoriali 31_08_2011


Una domanda sorge spontanea di fronte alle ripetute esternazioni estive sulla lotta all’evasione fiscale e l’obbligo morale di pagare le imposte, provenienti non soltanto dalle più alte cariche dello Stato ma anche dal mondo cattolico.

La domanda è questa: è legittimo fare pressioni morali e psicologiche sul contribuente affinché paghi le imposte senza contemporaneamente ricordare l’ingiustizia di uno Stato che chiede allo stesso contribuente la metà dei propri guadagni (il 48, 6% secondo il Corriere della Sera del 28 agosto)?

E ancora: è giusto affermare che il contribuente è così tartassato dal fisco perché molti suoi concittadini (in particolare i lavoratori autonomi) non pagano le tasse e contemporaneamente non ricordare che se lo Stato uscisse dagli ambiti che non gli competono (RAI, Poste, Ferrovie, scuola, università) non avrebbe bisogno di così tante entrate?

La domanda mi sembra fondata per ogni cittadino e in modo particolare per i cattolici tenuti ad accogliere i criteri di giudizio della dottrina sociale della Chiesa, soprattutto il principio di sussidiarietà che vieta alle società maggiori, in particolare allo Stato, di invadere il campo delle realtà più piccole (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1883).

Infatti, ognuno è tenuto a rispettare il principio di solidarietà, cioè a distribuire ai più poveri parte delle sue ricchezze attraverso un’opera di distribuzione che, nel mondo moderno, lo Stato ha attribuito a se stesso. Quindi lo Stato preleva dai cittadini più ricchi per distribuire ai più poveri. Ammettiamo che sia così, anche se fatichiamo a vedere l’equità e l’efficacia di questa distribuzione. Ma perché invece lo Stato non lascia alla società il compito di svolgere questo intervento sociale limitandosi a intervenire quando le realtà private non riuscissero a svolgere il loro compito? Eviterebbe così spese, costi del personale e burocratici, e favorirebbe lo sviluppo di pezzi importanti della società, costretti a prendersi cura di bisogni primari e a rispondere allo stesso Stato delle iniziative svolte.

C’è un peccato originale che non si vuole affrontare. Si tratta dell’estensione del potere e dell’intervento sul corpo della società dello Stato moderno, per intenderci quello costituitosi in Italia a partire dalla dominazione napoleonica. Uno Stato che ha preso sotto il suo controllo tutto quello che poteva, facendo invece sempre peggio quello che doveva fare. Ha monopolizzato la scuola e l’assistenza, la cultura e la ricerca, i trasporti e i mezzi di comunicazione di massa, e molto altro ancora. E ha trascurato la sicurezza (polizia e carabinieri), la Difesa, e in generale quei compiti che soltanto lo Stato può assolvere.  Così ha creato una burocrazia elefantiaca che costa troppo. Poi lo stesso Stato, in Italia a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, è stato occupato dai partiti e dai loro bisogni, cioè dai costi sempre crescenti della politica.

Ne è venuto fuori un brutto pasticcio, che nessuno può risolvere a breve termine. Un problema antico, quello della "persecuzione fiscale", che papa Pio XII affrontava già il 2 ottobre 1956 ricordando cha accanto al «dovere di ogni cittadino di sopportare una parte delle spese pubbliche», rimane il dovere dello Stato di «ripartire fra essi [i cittadini] soltanto carichi necessari e proporzionati alle loro risorse», e soprattutto denunciava (attenzione siamo nel 1956, prima del centro-sinistra) «l’estensione smisurata dell’attività dello Stato, attività che, dettata troppo spesso da ideologie false o malsane, fa della politica finanziaria, e in modo particolare della politica fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di un ordine assolutamente diverso». Un problema ripreso nell'enciclica Centesimus annus dal beato Giovanni Paolo II con la critica allo Stato assistenziale  che «intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società […] provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici».

Non voltiamoci dall’altra parte, fingendo di credere che il problema sia l’evasione delle tasse. Anche se emergesse tutto il cosiddetto "nero" dell’economia sommersa, anche se improvvisamente i servizi statali cominciassero a funzionare, rimarrebbe il problema dell’ingiustizia di uno Stato che ha occupato settori che non gli competono e che ne fa pagare i costi a una società sempre più impoverita e deresponsabilizzata.

"Tanta libertà quanto è possibile, tanto Stato quanto è necessario", diceva un vecchio adagio della dottrina sociale cristiana. Teniamolo presente, non tanto per questa manovra ormai in corso, ma per le riforme strutturali di cui si continua a parlare, senza peraltro vedere alcun risultato. Intervistato da Avvenire il 30 agosto, il Presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi ha detto che «dal 1975 ad oggi in Italia il peso delle imposte sul Pil è raddoppiato» e «nel 1975 il tasso di risparmio sul reddito prodotto in Italia era il 27/28%, oggi è sotto il 5%v. In trent’anni lo Stato ha avuto a disposizione molti più soldi, ma i servizi sono rimasti quelli che vediamo e in compenso le famiglie hanno risparmiato molto di meno. Insieme al crollo demografico, questo è il volto drammatico della crisi che stiamo vivendo da almeno trent’anni. Saremmo contenti se i nostri Pastori ce lo ricordassero il più spesso possibile.