Contro le tentazioni del gallicanesimo
Ascolta la versione audio dell'articolo
Tra i capisaldi del gallicanesimo c’era l’idea che il sovrano dovesse controllare le nomine dei vescovi. Un’idea erronea, diffusa ovunque e da secoli, che il beato Rosmini inseriva tra le “cinque piaghe” della Chiesa.
A noi oggi sembra di parlare di cose lontane quando si evoca il gallicanesimo. In effetti è una tendenza che inizia molto indietro nei secoli, già nell’epoca carolingia vediamo delle tendenze autonomiste nella Chiesa di Francia. Un acuirsi di queste tendenze si ebbe naturalmente durante il periodo avignonese, quando i Papi stessi non risiedevano più a Roma ed erano di origine francese.
Poi, il 7 luglio 1438 Carlo VII pubblicò la Prammatica Sanzione, con cui si arrogava i diritti sulla Chiesa di Francia. Se è vero che questa disposizione fu abolita sotto Leone X (1513-1521), è pur vero che le tendenze autonomiste da parte francese continuarono sempre e che le spinte ad un certo grado di indipendenza temporale, ma anche spirituale, erano molto forti.
Uno strumento di queste politiche autonomiste era quello del conciliarismo, l’idea per cui il Concilio ecumenico avrebbe un’autorità superiore a quella del Papa. Il 6 aprile 1415 questa idea venne solennemente dichiarata nel Concilio di Costanza, in assenza del Papa, con il decreto Haec sancta. In definitiva, un capovolgimento della dottrina cattolica. Secondo l’idea conciliarista, un concilio potrebbe approvare documenti che contraddicono la volontà del Pontefice, custode supremo della Tradizione.
Nei secoli si sono diffuse anche altre tendenze simili al gallicanesimo, come il giuseppinismo, con cui Giuseppe II d’Asburgo prefigurava un’ingerenza forte del potere civile nella vita della Chiesa; e, ancora, il febronianesimo in cui il vescovo Febronio auspicava l’indipendenza delle chiese nazionali.
In Francia, le tendenze autonomiste si mischiarono con il giansenismo, altra eresia condannata solennemente da Pio VI con la bolla Auctorem fidei del 1794 e che in Italia aveva prodotto il cosiddetto Sinodo di Pistoia (1786). In questo documento Pio VI condannava come eretica questa affermazione: «Inoltre la proposizione che stabilisce “essere il Romano Pontefice Capo Ministeriale”; così spiegata, che il Romano Pontefice non da Cristo in persona del Beato Pietro, ma dalla Chiesa riceva la potestà del Ministero, che ha nella Chiesa universale come successore di Pietro, vero Vicario di Cristo, e Capo di tutta la Chiesa». Pur se il gallicanesimo sembrò arretrare nel periodo napoleonico, così poi non fu e anche il Concilio Vaticano I dovette esprimersi sulla questione.
Uno dei capisaldi del gallicanesimo è quello che riguarda la nomina dei vescovi. Ovviamente, se controlla la nomina dei vescovi, il potere civile controlla la Chiesa locale che diventa de facto, se non de iure, indipendente da Roma. Ricordiamo che la struttura gerarchica della Chiesa non è un capriccio della storia, ma essa fu voluta dallo stesso Signore Gesù Cristo che affidò la Chiesa a Pietro. Non è un caso che questo passaggio della Sacra Scrittura è tra i più delegittimati dai protestanti. Questo non significa che i Papi possano fare quello che vogliono, in quanto sono comunque vincolati all’autorità divina che si manifesta nell’osservanza di quanto contenuto nella Scrittura e nella Tradizione.
Antonio Rosmini, nel 1846, pubblicò Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. La quarta piaga riguarda proprio il controllo del potere laicale sulle nomine dei vescovi. Affermava tra l’altro Rosmini: «In quel tempo in cui il poter laicale veniva crescendo nella sua costante impresa d’invadere le elezioni, e con esse la libertà della Chiesa, cioè nel secolo IX (e nel susseguente, l’usurpazióne giunse al suo colmo); un passo di questa progressiva invasione fa di esigere, che l’elezione non si facesse se non dopo dimandatone ed ottenutone il permesso a’ principi». Queste parole di Rosmini vanno lette con attenzione perché ci comunicano che la tendenza del potere civile a interferire nella nomina dei vescovi è un modo di scardinare la costituzione gerarchica della Chiesa. Questa tendenza ha anche delle versioni che potremmo definire “morbide”, già del resto ben delineate dal beato Rosmini, per cui il Pontefice praticamente si limiterebbe «per il bene della Chiesa locale» ad approvare quanto già deciso dall’autorità civile, dando praticamente un permesso indiretto: così la libertà ecclesiastica è praticamente annullata.
È vero che la Chiesa cattolica a volte, confrontandosi con alcuni regimi politici, è costretta ad alcuni compromessi. Ma fino a che punto? Non certo sui suoi princìpi fondamentali. Se il compromesso andasse ad intaccare la costituzione gerarchica della Chiesa, divinamente stabilita, verrebbe fatto il bene dei fedeli? Allora forse la misura più adeguata per i fedeli sarebbe quella di tipo “giapponese”, cioè quella dei cattolici giapponesi che durante le persecuzioni - iniziate nel XVI secolo e continuate nei secoli successivi - scelsero la clandestinità. Non era certo la situazione migliore per la Chiesa, ma tra l’oppressione del potere politico e una Chiesa sfigurata arriva il momento in cui bisogna «rifugiarsi nel bosco» (Ernst Jünger) e continuare la propria battaglia spirituale con altri mezzi.