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CONTINENTE NERO

Congo, una strage ferma la tirannia di Kabila

Repubblica Democratica del Congo: una settimana di proteste nella capitale Kinshasa è costata la vita a 42 persone, uccise dalle forze dell'ordine. Ma almeno è naufragato il progetto di riforma elettorale del presidente Joseph Kabila che ne avrebbe consacrato una sua dittatura di fatto.

Esteri 31_01_2015
Joseph Kabila

C’è voluta una strage, nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc) per fermare il progetto del presidente Joseph Kabila di prolungare il proprio mandato oltre i limiti previsti dalla costituzione.

Dal 19 al 22 gennaio, in quattro giorni di proteste popolari, 42 persone hanno perso la vita nella sola capitale Kinshasa, uccise dalle forze dell’ordine intervenute a fermare i dimostranti sparando ad altezza d’uomo, e si contano decine di feriti. Nel frattempo nelle aule del parlamento – questo il motivo delle proteste – si discuteva il testo di una riforma elettorale che l’opposizione definiva, a ragione, un “golpe costituzionale”. La nuova legge stabiliva come necessario lo svolgimento di un censimento della popolazione prima di indire nuove elezioni. Poteva sembrare una proposta più che ragionevole e condivisibile dato che in Rdc un censimento serio, attendibile, non si è mai svolto da quanto nel 1960 il paese ha ottenuto l’indipendenza dal Belgio: è indispensabile rimediare – aveva spiegato il governo nel presentare la proposta di legge – un censimento è vitale per garantire d’ora in poi elezioni libere e corrette. 

Se non che, per riuscire a censire tutta la popolazione congolese, nelle condizioni in cui versa il paese, ci vuole moltissimo tempo: si è parlato di circa tre anni. La Rdc infatti ha un territorio vasto, pari a circa 2/3 dell’Europa occidentale. A rallentare le operazioni di rilevazione, si aggiungono la carenza estrema di infrastrutture e, nelle province orientali, uno stato permanente di guerra che rende estese aree insicure e persino inaccessibili. 

Adottare la nuova legge elettorale avrebbe comportato quindi, per prima cosa, un sicuro rinvio delle prossime elezioni, quelle presidenziali previste nel 2016, alla scadenza del secondo e ultimo mandato del presidente Kabila: che non potrà più candidarsi perché la costituzione limita a due i mandati presidenziali che un cittadino può ricoprire. È proprio questo, sostiene l’opposizione, che ha indotto Kabila e il suo governo a proclamare la necessità di un referendum: non certo dunque un provvedimento inteso a tutelare la democrazia, bensì un espediente per rimandare il voto, per prendere tempo. 

In seguito alle proteste, che hanno interessato diverse città e che minacciavano di estendersi ulteriormente, il 23 gennaio il Senato ha votato la legge elettorale, ma apportandovi un emendamento che ha eliminato l’obbligo del censimento. La legge così modificata è stata approvata anche dalla Camera due giorni dopo. L’elezione del presidente della repubblica quindi dovrebbe svolgersi nel 2016, secondo il calendario previsto. Prima di allora Kabila può tentare altre vie, “costituzionali” e non, per conservare il potere: ad esempio, proporre o, per meglio dire, imporre una revisione della costituzione che sopprima il limite dei due mandati. Prima di lui ci sono riusciti diversi suoi colleghi: tra gli altri, Paul Biya, presidente del Camerun dal 1982, Idriss Déby Itno, presidente del Ciad dal 1991, Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda dal 1986. Altri hanno fallito: per ultimo, Blaise Compaorè che, lo scorso novembre, è stato costretto all’esilio da imponenti manifestazioni popolari, scatenate dal suo tentativo di eliminare dalla costituzione l’articolo che gli impediva di ricandidarsi, e di cui l’esercito ha approfittato per compiere un colpo di stato. 

Le manifestazioni a Kinshasa e in altre città dei giorni scorsi, degenerate in atti di vandalismo e saccheggi, sono state le più gravi dopo quelle del 2011, all’indomani delle presidenziali, vinte per la seconda volta da Joseph Kabila, ma vistosamente inquinate da brogli. Va ricordato che Joseph Kabila aveva assunto la carica nel 2001, ereditandola dal padre Laurent Désiré, ucciso in un attentato. A sua volta Laurent Désiré aveva conquistato il potere militarmente, sconfiggendo il dittatore Sese Seko Mobutu nel 1997. 

Nei giorni critici della protesta il cardinale Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa, aveva lanciato appelli di pace: alla popolazione, perché rinunciasse alla violenza e adottasse invece “tutti mezzi legali e pacifici possibili”; alle forze dell’ordine – “Smettete di uccidere i vostri fratelli” – e ai politici, primi responsabili di quanto stava accadendo, esortandoli ad agire responsabilmente. 

La Rdc, sotto la dinastia Kabila, è stata sconvolta da una delle più cruente guerre del continente africano, combattuta tra il 1998 e il 2003, e mai del tutto conclusasi nell’est del paese, al confine con Uganda e Rwanda. Nel 2008 si stimava che avesse causato la morte di circa 5,4 milioni di civili, in gran parte uccisi da stenti e malattie. Da allora il bilancio è aumentato costantemente, malgrado la Monusco, la più grande missione di pace mai istituita dalle Nazioni Unite, con oltre 22.000 tra militari e agenti di polizia. L’Indice di sviluppo umano 2014 vede il paese, uno dei più ricchi di risorse minerarie al mondo, penultimo, seguito dal Niger, con un tasso di povertà che supera il 74%.