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SPARI IN CATTEDRALE

Congo, la processione finisce nel sangue

8 moti, spari e lacrimogengi nella Cattedrale di Kinshasa per probire la partenza di una processione-marcia con il leader dell'opposizione. Il braccio di ferro tra il presidente, che non lascia il potere, e le autorità religiose. 

Libertà religiosa 02_01_2018

Il 31 dicembre le chiese cattoliche di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, RdC, hanno indetto una manifestazione pacifica di protesta contro il mancato rispetto dell’accordo di San Silvestro, firmato da governo e opposizione esattamente un anno prima, il 31 dicembre 2016. L’ordine era che i fedeli, terminate le funzioni domenicali delle rispettive parrocchie, si riunissero per sfilare nel centro cittadino. La manifestazione è stata proibita, ma le autorità religiose della capitale hanno deciso di svolgere ugualmente la marcia.

La reazione del governo è stata più violenta che mai e almeno otto persone hanno perso la vita. Per impedire che si formassero i cortei, il governo ha ordinato che polizia ed esercito si schierassero all’esterno delle chiese e creassero posti di blocco. Le forze di sicurezza sono persino entrate nel complesso della Nostra Signora del Congo, la cattedrale di Kinshasa, usando gas lacrimogeni e sparando tra i presenti che attendevano l’arrivo di Felix Tshisekedi, il leader dell’opposizione maggior avversario del presidente Joseph Kabila.

I sacerdoti all’interno della chiesa hanno informato i fedeli che l’edificio era circondato suggerendo loro di tornare a casa per mettersi in salvo. Molti però hanno rifiutato di andarsene e la messa è iniziata. Le prime due vittime si sono avute quando agenti e militari hanno usato i gas lacrimogeni per interrompere la funzione e poi hanno sparato sui fedeli in fuga.

La marcia è partita lo stesso, con alla testa dei chierichetti che portavano un grande crocifisso. Prima che la manifestazione fosse dispersa, altre cinque persone sono cadute, colpite dalle forze di sicurezza che non hanno esitato a caricare i chierichetti con un mezzo militare. 

Il portavoce delle Nazioni Unite in RdC, Florence Marchal, che ha condannato l’uso della forza contro dimostranti pacifici e “la repressione violenta dei diritti e delle libertà fondamentali da parte delle forze di sicurezza”, sostiene che una persona è stata uccisa dalla polizia anche a Kananga, capoluogo della provincia del Kasai centrale, durante un’altra manifestazione e che inoltre gli agenti hanno arrestato più 120 persone, tra cui 12 chierichetti, nella sola Kinshasa. 

Ogni altra protesta è d’ora in poi proibita, hanno fatto sapere le autorità. Ma la Chiesa congolese non accetterà di tacere e mettersi da parte, arrendendosi al presidente Kabila. La posta in gioco è troppo importante. Per chi non lo ricordasse, all’origine della crisi attuale è il rifiuto del presidente Joseph Kabila di rinunciare alla carica. Il suo secondo e ultimo mandato è scaduto nel dicembre del 2016. Non essendo ancora riuscito a far abolire il limite dei due mandati presidenziali previsti dalla costituzione che gli impedisce di ricandidarsi, Kabila ha trovato degli espedienti più o meno legali per rimandare le elezioni. Ma l’annuncio che non si sarebbero svolte prima del 2018 ha scatenato reazioni violente, represse brutalmente. Solo l’intervento della Conferenza episcopale ha evitato lo scatenarsi di un conflitto ottenendo il 31 dicembre 2016 dal presidente Kabila l’impegno a indire le presidenziali entro il 2017: l’accordo di San Silvestro, appunto, che tuttavia Kabila ha violato poiché l’anno è finito senza che si aprissero i seggi e anzi il governo nelle scorse settimane ha fissato il voto addirittura al 23 dicembre 2018.

Inizia davvero male il 2018 in Congo. Iniziano male l’anno, perdendo l’occasione di una analisi una volta tanto corretta dei fatti, anche molti osservatori e commentatori, i soliti convinti che tutti i mali del paese dipendano dalla sfrenata brama occidentale di coltan, per i cellulari. “Kabila reprime ancora per restare in sella, nel silenzio del mondo” è il titolo di un articolo di un quotidiano italiano. Non solo il mondo non se ne sta in silenzio, ma da quasi 20 anni finanzia la più costosa delle missioni di peacekeeping Onu, la Monuc (ex Monusco), e assiste generosamente milioni di congolesi in difficoltà. 

Piuttosto il problema è che dell’RdC spesso il mondo parla a sproposito, spostando responsabilità e colpe altrove. “Perché, alla fine, la storia e la maledizione del Congo è tutta qui: le sue risorse. Da sempre”. Con queste parole termina l’articolo dopo aver ricordato “il “filo-francese” Mobutu scalzato da quel (filo-multinazionali americane) Laurent-Désiré padre dell’attuale presidente”. 

La maledizione del Congo non sono mai state le sue risorse. La maledizione sono i suoi abitanti, tutti quelli che, se solo riescono, si appropriano di quelle risorse, le vendono come fossero loro proprietà e si arricchiscono, chi poco chi tanto, a seconda della carica raggiunta, lasciando che sia il resto del mondo a farsi carico della sopravvivenza di milioni di connazionali. Non importa se un presidente del paese, Sese Seko Mobutu, era filo francese e quello successivo, Laurent Désiré Kabila, filo multinazionali americane: entrambi erano cittadini congolesi che hanno tradito la loro patria e i loro connazionali, così come sta facendo Joseph Kabila, giovane imprenditore multimilionario.