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ESPANSIONISMO CINESE

Condannati i democratici a Hong Kong, ma per la Cina è solo il primo passo

Il processo di Hong Kong si è concluso con la condanna di tutti e nove gli oppositori democratici, colpevoli di aver organizzato e promosso la manifestazione non autorizzata del 18 agosto 2019. A meno di due anni da quella manifestazione di massa, i suoi promotori finiscono alla sbarra, precisamente per il motivo della loro protesta: sono stati condannati per assecondare la volontà della Cina comunista. Fra i condannati spiccano Jimmy Lai, celebre imprenditore ed editore cattolico e Martin Lee "padre della democrazia".  Oggi tocca a Hong Kong, che perde la sua autonomia. E un domani? Taiwan è la prossima nella lista, anche se potrebbe richiedere un'azione militare. Le forze armate cinesi saranno in grado di conquistarla e di sfidare apertamente gli Usa entro il 2027. 

Esteri 17_04_2021
Polizia di Hong Kong, con il nuovo passo dell'oca mutuato dalla Cina comunista

Il processo di Hong Kong si è concluso con la condanna di tutti e nove gli oppositori democratici, colpevoli di aver organizzato e promosso la manifestazione non autorizzata del 18 agosto 2019. La protesta, prevalentemente pacifica, in cui sfilarono 1,7 milioni di honkonghesi, era rivolta contro la nuova legge sull’estradizione che avrebbe permesso alla magistratura della Cina comunista di processare anche cittadini di Hong Kong, violandone l’autonomia giuridica. A meno di due anni da quella manifestazione di massa, i suoi promotori finiscono alla sbarra, precisamente per il motivo della loro protesta: sono stati condannati per assecondare la volontà della Cina comunista. E potrebbe essere solo l’inizio di una persecuzione ancora peggiore, specialmente per l’imprenditore ed editore cattolico Jimmy Lai. Oggi tocca a Hong Kong. E un domani?

Ai dissidenti democratici sono state inflitte pene che vanno dagli 8 ai 18 mesi, come deciso ieri Corte distrettuale di West Kowloon, dopo aver ascoltato le richieste per l’attenuazione della condanna, stabilita dalla giudice Amanda Woodcock il 1 aprile. Jimmy Lai, uno dei leader più seguiti della protesta, imprenditore convertitosi al cattolicesimo, filantropo, editore di Apple Daily, punto di riferimento dell’opposizione al regime comunista di Pechino, ha ricevuto una condanna a 12 mesi per la manifestazione del 18 agosto e altri 8 mesi per quella del 31 agosto. Il giudice ha comunque stabilito che i due periodi di carcere siano sovrapposti, con l’eccezione di 2 mesi. In totale, dunque, Jimmy Lai passerà in prigione i prossimi 14 mesi. Ma potrebbe essere solo l’inizio, appunto, perché su di lui si stanno concentrando le accuse dei procuratori. Attualmente è in attesa di processo per la violazione della Legge per la Sicurezza nazionale (voluta direttamente da Pechino), cosa che potrebbe costargli anche l’ergastolo.

L’altro celebre imputato è Martin Lee, “padre della democrazia”, membro del Consiglio Legislativo sin da prima del fatidico 1997, quando Hong Kong venne restituita dal Regno Unito alla Cina. Ieri è stato condannato a 11 mesi di carcere. La pena più dura è stata inflitta a Leung Kwok-hung, ex parlamentare condannato a 18 mesi. Sono stati condannati a un anno l’ex parlamentare e giurista cristiana Margaret Ng, gli ex deputati Albert Ho e Lee Cheuk-yan, condanna leggermente più lieve (10 mesi) per Au Nok-hin, politico del Partito Democratico, che si era dichiarato colpevole. Pene di 8 mesi, invece per Cyd Ho e il sindacalista Leung Yiu-chung (l’altro imputato che si era dichiarato colpevole).

Emozionante l’arringa finale di Margaret Ng, che ha citato san Tommaso Moro: «Sono arrivata tardi alla pratica legale. Sono invecchiata al servizio dello Stato di diritto. So che Tommaso Moro è il santo patrono della professione legale. Fu processato per tradimento perché non aveva piegato la legge alla volontà del re. Le sue ultime, famose parole sono ben conosciute; mi permetto però di adattarle leggermente per farle mie: “Sono una buona servitrice della legge, ma prima ancora del popolo. Perché la legge deve servire il popolo, non il popolo la legge”».

Quel che sta avvenendo a Hong Kong, la rapida erosione della sua autonomia ad opera del regime comunista cinese, è solo un piccolo (anche se importante) dettaglio di un quadro molto più ampio. Se fino a pochi anni fa si parlava di Cina solo come di una potenza economica in rapida crescita, di un concorrente (molto spesso sleale, ma sempre concorrente) più che di un avversario, oggi il quadro è cambiato. Dopo Hong Kong, inglobata nel sistema cinese con un’operazione solo politica, potrebbe toccare a Taiwan, che potrebbe richiedere un’azione anche militare. Come tutti gli anni, la Cina ha minacciato di annettere Taiwan con la forza e di ricorrere all’invasione se il governo di Taipei, guidato dalla democratica ed indipendentista Tsai Ing-wen, dovesse proclamare formalmente l’indipendenza. Il 12 aprile, 25 aerei militari cinesi, fra cui 4 bombardieri, hanno sconfinato nello spazio aereo di Taiwan. Pur non essendoci un confine ufficialmente riconosciuto fra le “due Cine”, hanno oltrepassato la “zona di identificazione”, il limite dello spazio aereo controllato dall’aeronautica taiwanese. Secondo l’audizione nel Senato statunitense dell’ammiraglio Phil Davidson, a capo del comando Usa nell’area Indo-Pacifico, la Cina sarà in grado di vincere un’eventuale guerra con Taiwan dal 2027. Solo sei anni. Nelle analisi passate si stimava che non fosse in grado di condurre un’operazione così complessa prima del 2035. Essere in grado di sconfiggere Taiwan, per la Cina, non vuol dire solo avere la capacità di battere le piccole forze armate dell’isola. Ma anche quella di respingere un contrattacco aereo, navale e anfibio statunitense nel Pacifico occidentale. Quel balzo di 8 anni nelle previsioni, dunque, fa capire quanto sia cresciuto il potenziale militare cinese e quanto sia pericoloso per la pace.

E Taiwan non è l’unico obiettivo delle mire imperiali cinesi. Anche il Vietnam, le Filippine e il Giappone stesso sono tutti sfidati nella definizione dei loro confini marittimi. L’ultima contesa, in ordine di tempo, riguarda le isole Spratly. La Cina ha rivendicato come propria un’area marittima delle Filippine e, come dimostrazione di forza, a fine marzo ha schierato 200 pescherecci d’altura, tutti ancorati e legati fra loro, per impedire l’accesso al naviglio filippino. Quando i cinesi si sono infine ritirati, dopo un lungo braccio di ferro con il governo di Manila, le foto satellitari indicano che potrebbero aver iniziato a costruire una nuova isola artificiale e che i pescherecci fossero lì per coprire e nascondere i lavori. Le isole artificiali sono un metodo usato dalla Cina per prendere possesso di zone marittime e presidiarle con basi aeree e missilistiche, come è già avvenuto altre volte nel Mar Cinese Meridionale. Missili anti-nave a lungo raggio, schierati in quelle acque, renderebbero la vita ancor più difficile alla flotta americana (in caso di guerra a Taiwan) e bloccherebbero il commercio petrolifero nel Pacifico meridionale.