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RISORGIMENTO/1

Con l'unità politica l'Italia ha perso smalto

A parte gli effettivi progressi in campo sociale ed economico, l'unificazione è coincisa con un calo del nostro "primato" culturale.

Cultura 12_02_2011
Goffredo Mameli
Anticipiamo qui sotto una riflessione del cardinale Giacomo Biffi nel libro in uscita da Cantagalli "L'Unità d'Italia. Centocinquant'anni (1861-2001)" (pp. 88, euro 8).


Il Risorgimento italiano è un fenomeno storico molto complesso, che si sviluppa tra i primi e gli ultimi decenni dell’Ottocento. In esso – sullo sfondo di rilevanti evoluzioni economiche e sociali – confluiscono e interagiscono apporti culturali e politici di varia natura, nonché precise iniziative diplomatiche e militari. L’esito del Risorgimento, indubbiamente positivo per molti aspetti, è in una nuova condizione della penisola, che passa dal frazionamento all’unità statuale, dall’egemonia straniera all’indipendenza, da una pluralità di regimi monarchici, assolutisti, a preponderanza aristocratica, a un unico regime costituzionale a prevalente indirizzo liberal-borghese. Tale processo – per quanto vari siano stati i contributi teoretici, sentimentali, operativi – si è svolto di fatto sotto la guida determinante della dinastia sabauda e ha trovato la ragione precipua della sua efficacia nella volontà e nella capacità di espansione del Regno Sardo.

UNA PERSUASIONE E UNA SPERANZA

Già nel nome stesso – suggestivo e fortunato – si può capire da quale persuasione e da quale speranza il Risorgimento sia stato mosso e ispirato.La persuasione sta in una valutazione globalmente negativa delle condizioni nelle quali in antecedenza si trovava l’Italia: “Noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi”.

“Perché siam divisi”, canta l’inno di Mameli (nella foto): come si vede, l’aspirazione all’unità politica dell’Italia comincia a diffondersi. Conquista anche Alessandro Manzoni, che per amore di questo ideale compie perfino il sacrificio di scrivere uno degli endecasillabi più brutti della letteratura italiana: “Liberi non sarem se non siam uni”. Ci si rende conto inoltre di qualche evidente incongruenza della situazione: per esempio, le decisioni che davvero determinavano il benessere o il malessere delle nostre popolazioni erano prese altrove, a Vienna o a Madrid; e le armi erano impugnate dagli italiani di solito in difesa degli interessi altrui. Tutto questo era senza dubbio deplorevole e poco gratificante.

Da qualche tempo inoltre serpeggiava tra i più pensosi la convinzione di un generale declino e quasi di un disfacimento inarrestabile. Nel 1790 Pietro Verri – che pure viveva in una delle regioni meglio amministrate – poteva scrivere: «Amo la mia patria, compiango i suoi mali e morirò prima che ne disperi il risorgimento»; offrendoci così, tra l’altro, una delle prime attestazioni della parola fatidica, almeno nella sua valenza politica. La speranza era che l’Italia – una volta unificata e divenuta indipendente – ritornasse con onore e autorità a primeggiare nel consesso delle nazioni. Di più, c’era il rammarico – particolarmente pungente in chi abitualmente si nutriva dei classici latini e si ricordava dell’ “elmo di Scipio” – per una terra, una volta di dominatori, che da tempo non conosceva più né fierezza guerriera né ebbrezza di vittoria: “...la gloria non vedo, non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi i nostri padri antichi”.

Certo, il termine “risorgimento” evoca più che altro un’immagine. Si tratta in fondo di una specie di “parabola” della nostra vicenda: l’Italia era “morta” e adesso ci si adopera a farla “risorgere”. Ma le immagini vanno verificate nella loro attinenza con la realtà che intendono rappresentare e le “parabole” chiedono di essere valutate nella loro oggettiva opportunità.

QUALE RESURREZIONE?

Credo sia innegabile che alla fine del secolo XVIII le condizioni sociali, politiche, economiche della penisola postulassero qualche trasformazione non superficiale, e qualche rinnovamento fosse auspicabile e necessario. E va riconosciuto che quanto è avvenuto ha provocato un mutamento profondo nelle strutture pubbliche, nella legislazione, nella vita associata, che oggettivamente va giudicato benefico.

Sotto questo profilo il Risorgimento non può ricevere, entro la lunga storia d’Italia, una valutazione negativa. Ma nella sua denominazione, oltre che nella storiografia più diffusa e, conseguentemente, nella retorica divulgata, si tende a lasciar credere che si sia trattato di una rinascita totalizzante: un passaggio degli italiani dalle tenebre alla luce, se non proprio dalla morte alla vita. Prima del 1860 – si ama supporre – tutto è degenerazione e squallore; dopo il 1860 tutto riprende a fiorire: il termine stesso “risorgimento” insinua o suppone proprio questa amplificazione che invece chiederebbe, a nostro parere, di essere attentamente verificata.

Senza disconoscere che in campo politico, sociale e anche economico (almeno per alcune regioni settentrionali) si siano dati effettivi progressi, vorremmo domandarci se si possa anche parlare – in che senso, con quale legittimità e con quale ampiezza – di un “risorgimento” culturale, morale e spirituale del nostro popolo, tale da avvantaggiarlo nella stima delle nazioni.

VITALITA' DEL SETTECENTO ITALIANO

Fino allo sconquasso napoleonico si irradia ancora dall’Italia su tutti i popoli una luce ammirata di civiltà, di genialità artistica, di scienza. Non è solo la memoria e il riverbero residuo di un magistero antico che si è estinto: è un magistero che è ancora in atto. Le nostre regioni non sono soltanto i musei degli straordinari capolavori del passato: sono laboratori attivi di varia umanità. Dal mondo non si guarda all’Italia come si guarda all’Egitto o alla Grecia: qui risuonano ancora voci che si fanno ascoltare. I segni di questa perdurante vitalità si ritrovano un po’ in tutti i campi: ne elenchiamo alcuni, così come ci viene.
A Vienna capitale dell’Impero asburgico, i “poeti cesarei” non hanno nomi tedeschi: si chiamano Apostolo Zeno e Pietro Metastasio; versificano in italiano e sono intesi da tutti, allo stesso modo che italiano è il linguaggio dell’opera lirica. A Parigi per tutto il Settecento “les italiens” hanno una presenza cospicua nella vita culturale e artistica della metropoli. Nel secolo XVIII nell’intera Europa si costruiscono chiese e palazzi sui modelli italiani, prima secondo gli stilemi barocchi e roccocò poi su quelli palladiani e neoclassici. Palladiani e neoclassici, sul gusto italiano, sono le dimore dei ricchi possidenti e dell’edilizia pubblica negli Stati nordamericani, soprattutto al Sud.

Tra il 1750 e i primi decenni dell’Ottocento la nuova capitale russa di San Pietroburgo acquista la sua tipica scenografia con i palazzi edificati da Bartolomeo Francesco Rastrelli († 1771), da Antonio Rinaldi († 1794), da Giacomo Quarenghi († 1817). La rilevanza della pittura italiana nel mondo – iniziata con Giotto nel secolo XIII e proseguita ininterrottamente per cinque secoli – arriva almeno a Giambattista Tiepolo († 1770). Nella scultura l’arte di Antonio Canova (1757-1822) ha un’influenza enorme e senza confini: artisti di ogni paese si formano alla sua scuola e ne diffondono ovunque i princìpi e i modi.

La musica sinfonica, non solo quella operistica, nasce in Italia. Ci limitiamo a citare i nomi di Arcangelo Corelli († 1713), Alessandro Scarlatti († 1725), Domenico Scarlatti († 1757), Antonio Vivaldi († 1741), Tomaso Albinoni († 1750), Giovanni Battista Sammartini († 1775). Mozart viene a studiare contrappunto a Bologna dal Padre Giambattista Martini († 1784). Del resto, come è stato detto, in quegli anni «l’Italia era ancora la patria della musica e la mecca di tutti gli studenti che aspiravano alla composizione». Gli stessi strumenti da concerto raggiungono qui la loro forma insuperata, e i liutai cremonesi non hanno rivali (basterà menzionare gli Amati, gli Stradivari, i Guarneri).

Nel mondo scientifico l’Italia è stata interlocutrice di tutto rispetto e, finché è stata divisa, ha iscritto nella storia della ricerca una serie di nomi dal prestigio universalmente riconosciuto, quali Marcello Malpighi († 1694), Giambattista Morgagni († 1771), Lazzaro Spallanzani († 1799), Luigi Galvani († 1798), Alessandro Volta († 1827): una stagione felice, che dopo l’unità non si ripeterà più. Nel campo delle matematiche è da ritenersi fondamentale e innovatore l’apporto del torinese Giuseppe Lagrange († 1813).

È la cultura italiana a dotare – molto prima di quella tedesca (dominante in questo campo nel secolo successivo, basterà ricordare i Monumenta Germaniae historica, a partire dal 1819) – l’esplorazione del passato della prima sistematica raccolta di fonti (Rerum italica rum scriptores, in venticinque volumi), per merito di Ludovico Antonio Muratori (†1750). Da Milano Cesare Beccaria († 1794), con un piccolo libro (Dei delitti e delle pene), avviò la scienza criminalistica moderna, influenzando tutte le legislazioni penali fino a quella di Caterina II di Russia. Questa rassegna casuale e quasi rapsodica di notizie dovrebbe essere sufficiente a giustificare qualche riserva nei confronti delle interpretazioni più convenzionali.

LA FINE DEL "PRIMATO"

Paradossalmente, proprio con gli autori che a vario titolo possono ben essere considerati i grandi “vati” del nostro Risorgimento – Foscolo, Leopardi, Manzoni – la letteratura italiana tocca un traguardo che poi non riesce più a oltrepassare. A Risorgimento concluso, non si leverà nessuna voce paragonabile alla loro, che risuoni degnamente e incontestabilmente tra le massime espressioni della poesia universale.

Come si vede, proprio dal momento che, con un governo “italiano”, con un parlamento “italiano”, con un esercito “italiano”, siamo stati accolti nel consesso dei popoli come un soggetto autonomo e ben individuato, parrebbe che non avessimo più niente da dire a nessuno. Naturalmente con le incontestabili eccezioni della musica lirica (basterà pensare a Verdi [† 1901] e Puccini [† 1924]), e del talento di inventore con cui si è imposto Guglielmo Marconi. Le genti italiche – che, divise, in tutti i campi avevano continuato a insegnare qualcosa a tutti – una volta raggiunta la sospirata unità e indipendenza politica, hanno solo cercato di imitare un po’ tutti, specialmente i francesi e gli inglesi, fino a rassegnarsi all’attuale condizione di colonia culturale statunitense.

A questo punto, credo si possa tranquillamente concludere che – se c’è stato un “risorgere” – è stato un “risorgere” relativo e parziale. Anzi, l’unificazione statuale è stranamente coincisa con un certo calo della nostra connaturale creatività. Sul piano dei valori più sostanziali, l’Italia con l’unità ha perso, per così dire, un po’ di smalto. Un osservatore acuto e libero come Riccardo Bacchelli rileva che il sistema politico preunitario era sì caratterizzato da «debolezza politica e militare di un insieme di Stati, in quanto tali privi di forza e anche di prestigio, ma quel prestigio non mancò mai all’Italia quale Nazione soprastatale». Sicché – osserva in un altro contesto – «alla realtà umana, politica e storica, ricca e diversa, della Nazione italiana, l’unificazione statale, a cose fatte e a tale confronto, appariva cosa dimessa, limitata, burocratica e rugosa e cipigliosa».

Di tutto ciò è difficile appurare in maniera esauriente e convincente le ragioni e le cause. Non possiamo però non raccogliere, da quel che si è detto, un invito a riesaminare con occhi disincantati ciò che è avvenuto: forse qualche attenzione in più alla natura delle spinte ideologiche che hanno mosso e guidato i “padri” che “hanno fatto l’Italia”, ci può illuminare sulla modestia e sulla opinabilità dei risultati.