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LE PRIMARIE DEL PD

Con la vittoria di Zingaretti torna la vecchia guardia

Il governatore del Lazio ha raccolto circa il 70% dei consensi (i votanti sono stati circa 1.800.000), sconfiggendo gli sfidanti Maurizio Martina e Roberto Giachetti, e archiviando la stagione del renzismo. Tra i principali sponsor del neoeletto figurano infatti numerosi dirigenti della vecchia guardia, da Paolo Gentiloni a Dario Franceschini.

Politica 05_03_2019

Di fronte allo schiacciante successo di Nicola Zingaretti alle primarie del Partito Democratico verrebbe voglia di rispolverare la metafora del gattopardo: cambiare tutto affinché nulla cambi. Il governatore del Lazio ha raccolto circa il 70% dei consensi (i votanti sono stati circa 1.800.000), sconfiggendo gli sfidanti Maurizio Martina e Roberto Giachetti, e archiviando di fatto la stagione del renzismo. Ma il suo obiettivo è inaugurare una fase realmente nuova oppure riesumare schemi che credevamo morti e sepolti e uomini che immaginavamo consegnati agli annali della sinistra? Presto per dirlo, anche se i primi segnali non lasciano intravvedere uno scenario di vero rinnovamento, bensì un’atmosfera di vera e propria restaurazione.

Tra i principali sponsor del neoeletto, infatti, figurano numerosi dirigenti della vecchia guardia, da Paolo Gentiloni a Dario Franceschini a Marco Minniti. Ma anche i cosiddetti “scissionisti”, che abbandonarono il Pd di Matteo Renzi per potersi ricandidare sotto altre insegne, ora sono pronti a tornare nelle file dem. Ci riferiamo in particolare a Piero Grasso, Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, visto anche il flop di Liberi e uguali, che alle ultime politiche ha raccolto uno striminzito 4%. Entusiasti infatti i loro primi commenti. Per loro al Nazareno ora si respira un’aria più gradevole rispetto a quando l’ex sindaco di Firenze li aveva rottamati, occupando tutti i posti chiave con suoi uomini di fiducia. E le parti si sono rovesciate, perché ora saranno i renziani a sentirsi emarginati e a meditare una scissione per dar vita a un nuovo partito di “moderati di sinistra”.

Scorrendo i nomi dei sostenitori di Zingaretti si ritrova anche quello di Massimiliano Smeriglio, suo vice in Regione Lazio, che è un ex di Rifondazione Comunista, e lo copre sul versante della sinistra estrema.

Per risanare i dissestati conti del partito, che ha avuto un crollo verticale di iscritti, il neo eletto ha già messo nel mirino il tesoriere attuale, il renziano Francesco Bonifazi, per sostituirlo in tempi brevi con Antonio Misiani, che non è propriamente di primo pelo, avendo ricoperto quell’incarico all’epoca della segreteria di Bersani.

Dunque il leitmotiv della gestione Zingaretti sembra essere proprio quello del recupero di uomini della vecchia nomenclatura, per tentare una riunificazione a sinistra che possa consentire al Pd di superare elettoralmente i Cinque Stelle e di piazzarsi come secondo partito dopo la Lega di Matteo Salvini. D’altronde basta rileggere il curriculum del neoeletto per capire le ragioni di tale svolta nella gestione del Pd. Ex segretario della Sinistra Giovanile, Nicola Zingaretti dal 2013 è presidente del Lazio (nel 2018 è stato rieletto), dopo essere stato anche presidente della provincia di Roma, deputato al Parlamento europeo e segretario regionale del Pd nel Lazio.

Ha cominciato a fare politica nel movimento pacifista e subito dopo nella federazione giovanile del Partito comunista, provenendo peraltro da una famiglia popolare e comunista. Può considerarsi quindi l’ultimo esemplare di una specie estinta con il terremoto degli anni Novanta, il dirigente iscritto fin dai banchi della scuola alla direzione del partito, come Berlinguer o D’Alema. Nel 2016, nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria “Mafia Capitale”, Zingaretti venne indagato per sospetto concorso in corruzione e per turbativa d’asta a causa di una serie di dichiarazioni che aveva fatto Salvatore Buzzi, uno dei principali indagati, durante gli interrogatori. Ma la sua posizione, dopo alcune verifiche, venne archiviata. 

Visto il suo profondo e storico radicamento nelle file della sinistra, Zingaretti appare agli occhi di molti come un possibile federatore e riaggregatore delle anime disperse di quell’area politica. Non è un caso che durante la sua campagna elettorale per le primarie il governatore del Lazio, che peraltro terrà il doppio incarico, abbia lasciato abbastanza sullo sfondo il simbolo del Pd per riesumare vecchi slogan inneggianti a una “nuova sinistra popolare”. E siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini ecco che già per le europee il neosegretario ha pronta una lista di possibili capilista individuati tra ex esponenti della vecchia guardia, privi di storia politica nel Pd ma molto apprezzati da una parte della sinistra: Giuliano Pisapia, Carlo Calenda, Massimo Cacciari, Ilaria Cucchi e un’altra donna da definire.

In caso di elezioni politiche anticipate, il neosegretario potrebbe riproporre la premiership di Paolo Gentiloni, che è peraltro già in pole position per la presidenza del Pd. Tante facce note, dunque, nel “nuovo” Pd targato Zingaretti, e nessun volto nuovo. Questo ritorno al passato e alle radici socialcomuniste pagherà in termini elettorali, riportando all’ovile del Pd molti voti finiti ai Cinque Stelle? In fondo la scommessa del governatore del Lazio sembra essere proprio questa.