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IL LIBRO

Come uscire dalla crisi? Tornando alle virtù

L’intera modernità ha preteso di avere un mondo giusto senza uomini giusti, un paradiso in terra senza santi, un futuro senza promessa né attesa. Il pensiero moderno ha elevato la prassi a metodo assoluto, slegandola però dalle virtù e quindi dalla verità e dal bene. Il nuovo libro di Roberto Marchesini, Le virtù. Il cammino del cavaliere (Sugarco), affronta proprio questo tema. Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo la prefazione.

Cultura 08_03_2019

Dopo le virtù, tornare alle virtù? Sembra che non ci sia altro sbocco per uscire dalla crisi attuale. L’intera modernità ha preteso di avere un mondo giusto senza uomini giusti, un paradiso in terra senza santi, un profetismo senza profeti, un futuro senza promessa né attesa. Bastava trovare il “metodo” finalmente corretto che permettesse procedure senza sbavature; individuare il flusso necessario, pur nella forma dialettica, della storia e prenderne parte; conoscere il substrato pulsionale della nostra vita psichica: prendere atto della “vita” che si agita in noi come in tutte le cose e che tragicamente esplode dissolvendo i concetti intellettuali che pretenderebbero di soffocarla nella loro astratta esattezza. Ciò che conta, si è detto, è la “struttura”, le dinamiche oggettive che veramente oggettive poi non erano, le leggi dell’economia o del pensiero o degli istinti.

Ma come potevano delle dinamiche strutturali e non personali non essere cieche? Senza uomini giusti che vedessero e vivessero la giustizia come poteva la società, spinta da forze anonime, diventare giusta? Dati questi presupposti, come potevano non aver ragione Schopenhauer o Nietzsche, e come potevano gli uomini non essere ingabbiati in “sistemi” privi di luce?

Da quando Cartesio pose il problema del metodo geometrico, nacque l’illusione di poter fare a meno delle virtù umane, perché la verità e la coerenza erano fornite appunto dal metodo e le virtù dianoetiche coincidevano fin da subito con le virtù etiche. Pensare di padroneggiare la vita con un metodo si risolse però in una illusione, perché la vita – per nostra fortuna – è più del metodo. Ciò bastò, tuttavia, a renderla artificiale: un processo che si svolge nonostante gli uomini e sopra gli uomini, processo infallibile per alcuni, cieco e assurdo per altri, in ogni caso disumano.

Filosoficamente il punto iniziale del degrado delle virtù fu quando l’esistenza venne anteposta all’essenza, come ci ha insegnato Cornelio Fabro, il che è stato tipico del pensiero moderno. L’esistenza che viene prima dell’essenza si riduce a un puro fare, libero sì, ma proprio per questo anche cieco e infondato.

Robespierre e tutta la corrente morale dell’“enciclopedia”, per usare l’espressione di MacIntyre, hanno esaltato la virtù contrapponendola però alla verità e al bene. La prassi rivoluzionaria, sia quella del Comitato di salute pubblica nel periodo caldo del Terrore, sia quella dei rivoluzionari comunisti  secondo la “Linea di condotta” portata sulla scena da Bertolt Brecht, hanno una sola virtù, quella di agire per la rivoluzione.

È la prassi che ci fa virtuosi, non è la virtù che rende virtuoso il nostro agire. Anche i teologi della liberazione sostenevano che la prima cosa da fare era chiarire da che parte si stesse nel processo di liberazione, chiarire quindi la posizione di prassi da cui poi deriverà la virtù di chi opera. Avviene così che l’uomo, per l’ansia di voler essere virtuoso a tutti i costi e in modo gratuito – senza rischio, potremmo dire – perde la dimensione della virtù personale proprio nel momento in cui la esalta prima e sopra la verità e il bene. Che a pensarvi sia lo Stato o il mercato come forze anonime, la giustizia sarebbe garantita.

L’esistenza senza la luce dell’essenza è indecifrabile. Così anche la virtù posizionata sull’esistenza senza tenere conto dell’essenza è immotivata e non argomentabile. Può essere solo una scelta volontaria, ma cieca dal punto di vista teoretico e logico, una pura scelta di prassi, un prassismo. Oggi il superamento delle virtù si chiama prassismo: anteporre la prassi all’essenza e fare della prassi la nostra essenza. Nell’esistenzialismo heideggeriano noi siamo la nostra esistenza.

La prassi senza virtù o la prassi come virtù – i due estremi qui coincidono – è però distruttiva, deludente e perfino angosciante. Che la nostra azione sia epifenomeno di altro di inconscio è già deprimente di per sé, ancora di più lo è se il nostro agire è solo se stesso, puntualmente appiattito su se stesso, senza ormai nemmeno più chiamare in causa strutture anonime che lo precedano. Il rovesciamento del rapporto tra essenza ed esistenza cambia il senso della virtù, lo umilia e lo distrugge.

Nella trattazione classica, aristotelica e tomista, le virtù sono di due tipi: dianoetiche ed etiche. In un certo senso le seconde dipendono dalle prime perché hanno bisogno della conoscenza del bene per poter agire in vista di esso. Perfino nelle tre virtù teologali – fede, speranza e carità – c’è, in questa vita, la priorità della fede, anche se nell’altra vita questo posto verrà preso dalla carità, dato che le prime due spariranno non per estinzione ma per compimento. Quaggiù la priorità spetta alla fede perché non si può sperare in ciò che non si conosce e non si può esercitare la carità verso chi o cosa non si conosce. Così avviene anche per il rapporto tra virtù dianoetiche e virtù etiche: questo rapporto va riconsiderato e ricostruito affinché le virtù possano uscire dal soggettivismo irrazionale che abbiamo chiamato prassismo e che di fatto le annulla.

La virtù è sempre un uscire da se stessi per agire in vista di un bene che non abbiamo creato noi. C’è un’etica delle virtù ma c’è anche un’ascetica delle virtù e c’è anche un’ascetica intellettuale delle virtù: la visione del Bene per fare il bene. L’inversione del rapporto tra essenza ed esistenza e tra teoresi e prassi ha a lungo irretito l’etica delle virtù che va invece liberata, ricostruendo il giusto rapporto tra le virtù etiche e quelle dianoetiche o, se vogliamo, teoretiche.

Il cristianesimo ha trasformato l’etica delle virtù ma non l’ha negata. La legge nuova non toglie la legge antica. Le virtù teologali non negano le virtù cardinali. Le virtù si trovano guardando l’essenza, ma la nostra essenza rivela già il Volto del Creatore. Le virtù cardinali si nutrono del Volto del Creatore e quelle teologali del Volto del Redentore non però secondo un prima e un poi, come se si trattasse di due scalini. Non è che le virtù cardinali si dispieghino fino in fondo autonomamente e poi subentrino quelle teologali. Senza le virtù teologali nemmeno le cardinali possono realizzarsi completamente.

Se è vero che la grazia non elimina la natura ma la perfeziona, ciò non vuol dire che la natura faccia il proprio corso da sola e poi la grazia le si aggiunga. Come diceva Augusto Del Noce, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non è il Dio dei filosofi più qualcos’altro. Anche la creazione è in vista della salvezza. Nello stesso tempo le virtù teologali lasciano che le virtù cardinali rimangano se stesse, al loro livello: la fede non trasforma la ragione in fede, la carità non chiede che la giustizia non sia più tale ma diventi a sua volta carità. Le virtù cardinali o naturali hanno bisogno di quelle teologali per essere costituite e per mantenersi, ma senza con ciò trasformarsi esse stesse in virtù teologali. Ogni piano della realtà rivela più di se stesso.

In generale nella Chiesa si assiste a un eccesso di organizzazione, pianificazione, interventi istituzionalizzati, procedure in appalto con i pubblici poteri. Oggi la Chiesa cattolica ha molti impiegati e sempre meno fedeli. Procede molto per documenti, protocolli e procedure dentro le quali si insinua un prassismo che sembra non avere più bisogno delle virtù. Si suppone che anteporre la pastorale alla dottrina produca maggiore coinvolgimento delle virtù personali e invece rende la pastorale una prassi, spesso cieca.

Questo libro di Roberto Marchesini si occupa della virtù e delle virtù e di esso, nel quadro che ho tratteggiato sopra, si sentiva un gran bisogno.