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TWITTER FILES

Come Twitter cacciò Trump e tradì la democrazia

Anche questa settimana, dagli archivi di Twitter emergono scottanti pezzi di verità: come e perché il presidente Donald Trump è stato bannato in modo permanente. Si scoprono interferenze politiche e dell'Fbi nel social network, pressioni dirette per oscurare una parte politica. E uno staff fanatico deciso a tappare la bocca a Trump.

Esteri 16_12_2022
Donald Trump, il suo profilo originale su Twitter, prima del ban

Anche questa settimana, dagli archivi di Twitter emergono scottanti pezzi di verità, fatti storici recenti che ora è possibile ricostruire fino al dettaglio. Come aveva promesso, il nuovo proprietario del social network, Elon Musk, dopo aver riammesso Donald Trump (che comunque non intende tornare a usare Twitter), ha anche svelato i segreti su come e perché fosse stato bandito nel 2021.

Con un’azione di censura senza precedenti, dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, un capo di Stato ancora in carica era stato rimosso da un social network a diffusione mondiale. La questione era stata subito presa seriamente dal mondo politico. Macron, che pure era stato sempre un rivale politico del suo omologo americano, aveva protestato affermando che non dovesse spettare a un soggetto privato la censura di un capo di Stato eletto dal popolo. La stessa preoccupazione era stata espressa da Angela Merkel. Ma Twitter si era difesa affermando che Trump avesse violato le regole della comunità, dunque non dovesse essere trattato diversamente da altri utenti colpevoli di violazioni gravi quali l’istigazione alla violenza (come l’assalto al Campidoglio). Ma ora apprendiamo, da quel che scrivevano gli stessi dipendenti e vertici dell’azienda di San Francisco, che Trump venne escluso senza che avesse violato né la legge, né le stesse regole della comunità. È stato chiuso il suo account, in modo permanente (finché non c’è stato il cambio di proprietà) per motivi puramente politici.

E d’altra parte il sospetto veniva. Come era possibile che su Twitter ci fosse ancora l’ayatollah Khamenei, che pure nel 2018 aveva definito Israele “un tumore da estirpare”? E perché c’era ancora Mohamed Mahatir, primo ministro malese che nel 2020 aveva twittato sul “diritto a uccidere milioni di francesi, per le loro colpe del passato” (era appena stato decapitato il professor Samuel Paty, accusato di aver mostrato le vignette su Maometto)? Sono tanti i casi in cui Twitter ha seguito la politica dell’interesse pubblico: quel che un capo di Stato o di governo dice, è di interesse pubblico, anche se il tweet incriminato può essere rimosso, l’utente resta. In tanti momenti del quadriennio trumpiano, Twitter aveva resistito alle numerose richieste di cacciare Trump dal social network per questa stessa ragione.

Il problema ancora peggiore è che, dalle conversazioni (scritte) interne alla sede del social network, apprendiamo che la decisione di espellere Trump in modo permanente non sia stata solo presa, per motivi politici, all’interno dell’azienda, ma che sia frutto di una serie di pressioni politiche esterne e persino delle agenzie di pubblica sicurezza americane, quali Fbi e Intelligence Nazionale. Quindi un pezzo di Stato, d’accordo con una parte politica (il Partito Democratico), hanno fatto pressione su uno dei più grandi social network del mondo perché censurasse Donald Trump.

La storia completa, in tre parti, di come Trump sia stato cacciato dal social network è stata narrata, in tre puntate, nel corso della settimana scorsa, da tre giornalisti di inchiesta: Matt Taibbi (autore della prima infornata di Twitter Files), Michael Shellenberger e Bari Weiss, ex editorialista del New York Times che ha lasciato il grande giornale perché mobbizzata da una redazione ormai radicalizzata verso l’estrema sinistra. Incredibile a credersi, ma la decisione non venne presa all’improvviso dopo i fatti del 6 gennaio 2021, ma meditata a lungo, per tutti i mesi delle elezioni, a partire dall’ottobre precedente. È dall’8 ottobre 2020, infatti, che si inizia a parlare di colloqui con l’Fbi e con l’Intelligence Nazionale per combattere contro la disinformazione nel corso delle elezioni. I dipartimenti dediti alla sicurezza all’interno di Twitter iniziano da allora una attività frenetica di revisione, di segnalazione e di oscuramento di tweet sul voto postale già in corso. Ad esempio: «In questo caso, l'Fbi invia segnalazioni su un paio di tweet, il secondo dei quali coinvolge un ex consigliere della contea di Tippecanoe, Indiana, e repubblicano di nome @JohnBasham, che sostiene che “tra il 2% e il 25% dei voti per posta vengono rifiutati per errori”». Dopo un piccolo dibattito interno: «Il gruppo decide poi di applicare l'etichetta “Impara come il voto è sicuro e protetto” perché un commentatore dice che “è assolutamente normale avere un tasso di errore del 2%”. [Yoel, ndr] Roth dà poi il via libera definitivo al processo avviato dall'Fbi». Casualmente o meno, tutte le segnalazioni riguardano messaggi scritti da repubblicani.

Il pressing inizia comunque dopo l’assalto al Campidoglio. A questo punto Twitter è sottoposto ad una pressione politica e “militare” (dall’esterno), così come ad una sollevazione interna dei dipendenti che chiedono di cacciare immediatamente Trump. E domandano anche ai vertici come abbiano fatto a tenerlo e a “rendersi complici” con un presidente ancora in carica, negli ultimi quattro anni. L’ex first lady Michelle Obama è una delle figure più in vista che chiedono il ban permanente. Trecento dipendenti firmano una lettera aperta contro la permanenza di Trump su Twitter pubblicata sul Washington Post. Nelle conversazioni interne l’atmosfera è ancor più incandescente: si cita Hannah Arendt e la Banalità del Male (continuare a pubblicare Trump come eseguire gli ordini superiori dei nazisti), si equipara Trump ad un leader terrorista o ad uno stragista.

Nel frattempo le regole erano già cambiate ad hoc: «Jack [Dorsey, l’allora ad di Twitter, ndr] ha appena approvato la recidiva per integrità civica". Il nuovo approccio creerebbe un sistema in cui cinque violazioni ("strike") comporterebbero la sospensione permanente». Ma non basta neanche quello. Arrivato all’8 gennaio, due giorni dopo l’assalto al Campidoglio, Trump non ha ancora totalizzato cinque violazioni, nemmeno secondo le regole di Twitter. Gliene manca una, e l’8 gennaio lancia due messaggi. Nel primo ringrazia i 75 milioni di “patrioti” che lo hanno votato, nel secondo annuncia che non parteciperà all’inaugurazione dell’amministrazione Biden. Nasce un dibattito surreale: ha lanciato un messaggio in codice per gli assalitori del Campidoglio? No, nemmeno secondo il team disciplinare di Twitter i due messaggi sono in violazione. Ma il caso viene, arbitrariamente, riaperto da una dirigente, Vijaya Gadde. Scrive Bari Weiss: «Meno di 90 minuti dopo che i dipendenti di Twitter avevano stabilito che i tweet di Trump non violavano la politica di Twitter, Vijaya Gadde - responsabile del settore legale, politico e fiduciario di Twitter - ha chiesto se si potesse trattare di un “incitamento codificato a ulteriori violenze”». La richiesta incontra l’entusiasmo di tutto il team che già avrebbe voluto cacciare Trump da anni ed ora ha l’opportunità di farlo.