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LO STUDIO

Come si trasforma la mente di un lettore nativo digitale

La neuroscienziata Maryanne Wolf si chiede come si stia trasformando la mente del lettore digitale, dunque della persona che legge solo su supporti digitali come pc, tablet e cellulare. Così come il libro richiede pazienza cognitiva, il supporto digitale chiede velocità. E il cervello si adatta e cambia di conseguenza (e non per il meglio)

Cultura 10_12_2018
Maryanne Wolf

Nel recente volume Lettore, vieni a casa (Vita e Pensiero, 2018), Maryanne Wolf – neuroscienziata cognitivista e docente all’University of California di Los Angeles – indaga i rischi cui va incontro il cervello umano che legge in un mondo digitale. A pagare il prezzo più alto di una lettura limitata a smartphone e tablet sono i nativi digitali, diseducati a una lettura profonda e a un’indagine acuta e critica della realtà

Leggere meno e distrattamente in un mondo digitale è un problema di non poco conto, se ciò comporta anche avere a disposizione meno parole per raccontare se stessi e il proprio mondo interiore. D’altra parte la lettura su tablet e smartphone è troppo spesso legata a un veloce scroll sul proprio dispositivo o alla durata di una corsa in metro da casa a scuola o al lavoro, e ciò naturalmente a discapito della qualità dell’attenzione al testo che si sta leggendo.  

Come si modifica dunque il cervello che legge in un mondo digitale e, soprattutto, quali ricadute sociali porta con sé tale trasformazione? A queste domande di grande e scottante attualità risponde nel suo recente volume Lettore, vieni a casa (Vita e Pensiero, 2018), Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitivista e docente all’University of California di Los Angeles. “La questione non è ciò che i libri diventeranno in un mondo di lettura elettronica. La questione è che ne sarà dei lettori che eravamo”. Il cervello umano è assimilabile con una metafora, secondo l’autrice, a un grande Circuit du Soleil, in cui ogni parola letta sollecita migliaia e migliaia di circuiti neuronali, coinvolgendo non solo le sfere del linguaggio, della cognizione e della visione, ma anche quelle legate all’area motoria e affettiva. Nell’esperienza della lettura è possibile infatti vivere quello che Proust definiva “il miracolo fecondo d’una comunicazione in seno alla solitudine”, nella misura in cui è possibile sentire le emozioni altrui senza muoversi dalla propria stanza, mediante un’esperienza di empatia profonda e sicuramente arricchente. In realtà quando siamo assorti nella lettura “per un momento abbandoniamo noi stessi, e quando ritorniamo, magari arricchiti e rafforzati, ci troviamo cambiati emotivamente e intellettualmente”. Per vivere tale esperienza è però necessaria una buona dose di “pazienza cognitiva, che consente di immergerci nei mondi creati dai libri e nella vita e nei sentimenti degli ‘amici’ che li abitano”.

Tale pazienza di leggere con cura e in profondità i libri e la stessa realtà che ci circonda sembra però drammaticamente venir meno nella società attuale, in un’era del digitale in cui ci stiamo trasformando da un gruppo di lettori esperti con piattaforme interiori di conoscenze uniche e personali, in un gruppo di lettori esperti sempre più dipendenti da server esterni di conoscenze sempre più simili”. Il rischio, cui sono esposti soprattutto i più giovani lettori digitali, è dunque quello di ridursi a “consumatori passivi di informazioni”, privati della capacità di analizzare in maniera critica la realtà. Se la riflessione e l’analisi richiedono tempo e concentrazione, a farla da padroni su smartphone e tablet sono invece lo skimming (lettura superficiale), lo skipping (salto di parti di testo) e il browsing (scorrimento veloce), ovvero una lettura a F o a zig zag. In questo modo il cervello si abitua a processare sempre più velocemente le informazioni che legge senza soffermarsi troppo su di esse, con una ‘mente da cavalletta’ (Papert), e ciò va a inficiare conseguentemente anche “il modo in cui le cose vengono scritte”.

Infatti, se la lettura di un libro cartaceo ammette più facilmente la possibilità di tornare a rileggere un determinato brano, sullo schermo “non si guarda mai indietro” (Jackson). Per questo motivo è opportuno educare sin dalla più tenera età i bambini alle “tre vite del buon lettore”. “La ‘prima vita’ è quella che raccoglie informazioni e acquisisce conoscenza. Noi siamo immersi in questo tipo di vita”. La ‘seconda vita’ consente di volare in alto con la fantasia e l’immaginazione, “di immergersi nei racconti della vita degli altri o in resoconti su misteriosi pianeti extrasolari appena scoperti o ancora in poesie che ci tolgono il respiro”. La ‘terza vita’, che è la “vita di riflessione”, costituisce “l’apice della lettura”, nella misura in cui consente anche di “guardarci intorno in modo più consapevole attraverso la lente dei pensieri degli altri”. Queste tre differenti modalità di lettura attestano che la semplice informazione non basta perché non è conoscenza, così come la conoscenza non è saggezza. Di qui la preoccupazione maggiore della neuroscienziata è rivolta soprattutto ai più giovani, i quali “facendo eccessivo affidamento a fonti esterne d’informazioni, non riescano a rendersi conto di ciò che non sanno”, ma non risparmia nemmeno il mondo degli adulti che “non si rendono conto dell’insidioso restringersi del proprio pensiero, dell’impercettibile abbassarsi della propria attenzione per le questioni complesse, dell’insospettato ridursi della propria capacità di scrivere, leggere o pensare oltre 140 caratteri”.

Esiste allora un solo rimedio per giovani e meno giovani: riscoprire che “i libri sono la nostra casa – oggetti reali, fisici, che si possono amare e di cui avere cura” (Michael Dirda), nella consapevolezza che “il cervello che legge in profondità è sia una realtà di tessuti e ossa cerebrali sia una metafora per l’espansione continua dell’intelligenza e delle virtù umane”.