Come sarà l'Anticristo, di Vittorio Messori
Il tema dell'Anticristo fa parte della tradizione della Chiesa e nel corso dei secoli diversi sono stati i tentativi di identificarlo. Ma oggi pare molto attuale l'intuizione di Carl Schmitt che giusto un secolo fa lo vedeva nascere dalla società moderna occidentale dove «gli uomini sanno tutto e non credono a niente». Ecco il suo identikit...
Pubblichiamo un articolo tratto dai "Vivaio" scritti da Vittorio Messori e raccolti in cinque volumi pubblicati dall'editrice SugarCo. Quello che segue è tratto dal volume Pensare la storia, 2006.
L’Anticristo, come sarà? Si sa che in Paolo, nelle lettere di Giovanni, nell’Apocalisse, sono sparsi vari preannunci di una realtà che la tradizione cristiana ha identificato come (cito da un libro di teologia) «il Principe del mondo che verrà a regnare sul mondo alla fine dei tempi, prima che il ritorno definitivo del Figlio dell’Uomo instauri i Cieli Nuovi e la Terra Nuova».
In molte epoche i credenti hanno pensato di identificare quel misterioso personaggio in qualche sanguinario protagonista della storia: Nerone, poi Attila, su su fino a Napoleone, Lenin, Stalin, Hitler.
Ma c’è anche una tradizione cristiana, seppur di minoranza, che pone la pericolosità dell’Anticristo («l’uomo del peccato», il «figlio della perdizione» di Paolo) non nella violenza e nel sangue ma nel mimetismo subdolo di una realtà suadente e invitante. Solo di recente è stato tradotto in italiano il libro, del 1907, di R.H. Benson, The Lord of the World, Il Principe del mondo, dove il Grande Oppositore di Gesù si presenta sotto le vesti di un «umanista», di un maestro di tolleranze, pluralismi, irenismi ecumenici. Un sorridente inquinatore, dunque, più che un fragoroso antagonista dell’Evangelo. Uno svuotatore dall’interno, più che un assalitore dall’esterno.
Forse, sinora pochi hanno notato che qualche anno dopo, nel 1916, la stessa tesi è stata riproposta da Carl Schmitt. Morto nel 1985 a quasi cent’anni, Schmitt è tra coloro di cui probabilmente sentiremo più parlare negli anni futuri: ce n’è già un preannuncio preciso nell’impetuosa bibliografia, ogni giorno crescente, sulla sua opera. La quale, in questi decenni, era stata rimossa ed esorcizzata perché sospettata addirittura di nazionalsocialismo. In realtà, questo geniale giurista e politologo tedesco fu presto messo da parte dal Terzo Reich (in cui pure, inizialmente, vide la realizzazione di alcuni punti della sua teoria politica) in quanto accusato di «insufficiente e superficiale antisemitismo» e, soprattutto, di «inquinamenti cattolici».
In effetti – come gli studi recenti hanno confermato – il cattolicesimo di Schmitt non fu una semplice eredità culturale determinata dagli studi giovanili presso collegi di religiosi, ma fu una fede professata e vissuta sino alla fine. Ciò che fa il fascino inquietante di questo pensatore (riscoperto ora anche dalla ex sinistra, in cerca confusa di maestri dopo la caduta di tutti i suoi punti di riferimento) è l’avere innestato in un realismo alla Machiavelli e alla Hobbes temi religiosi come colpa, redenzione, salvezza; come Cristo e Anticristo stessi. Si è detto che la sua sarebbe una «teologia politica». Mentre, per chi legga con attenzione, è forse una «politica teologica»: un discorrere, cioè, di ordinamenti umani mettendo nel conto anche la trascendenza; un misurarsi con la storia, nella consapevolezza che questa non è tutto, che è destinata a sfociare in un Mistero che la supera.
Sin dal 1916, militare nell’esercito bavarese, il ventottenne Carl Schmitt inizia a riflettere sull’Anticristo in un libro dedicato a Nordlicht («Luce del Nord», ossia «aurora boreale») di Theodor Däubler. Il giovane Schmitt cita, in quelle pagine, un testo da lui scovato nell’Efrem latino, nel Sermo de fine mundi. Varrà la pena di citare nell’originale quel passo davvero singolare, secondo il quale il Grande Ingannatore che provocherà l’apostasia di molti prima della vittoria definitiva di Cristo «erit omnibus subdole placidus, munera non suscipiens, personam non praeponens, amabilis omnibus, quietus universis, xenia non appetens, affabilis apparens in proximos, ita ut beatificent eum omnes homines dicentes: Justus homo hic est!».
Cioè: «Subdolamente, piacerà a tutti, non accetterà cariche, non farà preferenze di persone, sarà amabile con tutti, calmo in ogni cosa, ricuserà i doni, apparirà affabile con il prossimo, così che tutti lo loderanno esclamando: “Ecco un uomo giusto!”».
Una prospettiva inquietante, questa dell’Efrem latino: l’Anticristo nelle vesti menzognere di un «uomo del dialogo», di un pacifico, riservato, onesto «umanista»? È proprio a questo identikit dell’Avversario che Schmitt aderisce: per lui, sorgerà da una società come quella moderna occidentale dove «gli uomini sono poveri diavoli che sanno tutto e non credono in nulla»; una società dove «le cose più importanti e ultime sono secolarizzate: la bellezza è diventata buon gusto, la Chiesa un’organizzazione pacifista, al posto della distinzione tra buono e cattivo, quella tra utile e dannoso».
In una simile cultura, quel subdolo Anticristo «dialogante» farà credere che la salvezza passa attraverso la sicurezza sociale e la pianificazione. Soprattutto (ed è una delle intuizioni più inquietanti dell’ancor giovane Schmitt), l’Anticristo non sarà affatto un materialista, un nemico della religione: anzi, «provvederà a tutti i bisogni, compresi quelli spirituali». Soddisferà l’anelito alla trascendenza dell’uomo parlando di spiritualità, proponendo una «religione dell’umanità» dove tutti siano d’accordo su tutto e dove sia bandita ogni divergenza e, soprattutto, ogni dogma, visto come il male radicale.
In quell’inizio del Novecento in cui scriveva, la prospettiva di Schmitt passò quasi inosservata, sembrando del tutto inverosimile. Ma non è forse il caso di rifletterci oggi, quando ciò che ci minaccia, in campo religioso, non è certo più l’intolleranza ma, semmai, il suo contrario: quella «tolleranza» che si trasforma in indifferentismo, nel rifiuto di considerare le varie fedi come qualcosa di più di un modo unico – differenziato soltanto per ragioni storiche e geografiche – di venerare lo stesso, identico Dio? Dove il «nemico» non è più il vecchio, onesto materialismo ma, forse, l’insidioso spiritualismo «umanitario»?