Come pellegrini in attesa del Dio che viene
Dio non è apparso come una cometa, ma ha scelto di irrompere in modo inaudito nella storia, facendosi carne attraverso una donna. La spiritualità, allora, deve seguire la legge dell’Incarnazione per essere cristiana. La novità di Cristo non consiste infatti in una mera prospettiva umana (come un’ideologia), ma è Dio stesso che cambia, da dentro, la storia. L’Avvento ci dice quindi che l’uomo non deve essere un viandante senza meta, ma un pellegrino che va verso l’incontro che dà senso alla vita.
Le linee culturali, soprattutto nella dimensione etica, dell’epoca in cui stiamo vivendo, sono state sinteticamente ben descritte nella prima relazione presentata in un convegno sulla formazione monastica permanente che si è svolto nell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore diversi anni or sono [1]. Si è trattato dell’intervento dal titolo Un’antropologia cristiana nel contesto della postmodernità, offerto da S. Ecc. mons. Ignazio Sanna (ora Arcivescovo emerito di Oristano), in cui sono stati individuati con lucidità tre nodi etici che l’antropologia cristiana è chiamata a sciogliere.
Il primo nodo è dato da quella che è stata definita l’etica del viandante in cui non ci si appella alla norma ma all’esperienza, così il senso della vita non è colto in un progetto ma nell’accadimento quotidiano, frammentato e soggettivo. Il secondo nodo è stato descritto dalla dilatazione del desiderio in cui è il soggetto che diventa la misura del desiderio, di conseguenza si può desiderare tutto, senza limiti, e l’uomo vale per quello che ha e non per quello che è. Il terzo nodo è quello che è stato chiamato la perdita della speranza in cui l’orizzonte si è abbassato alla semplice attesa del futuro.
La risposta cristiana è data dall’uomo visto come immagine di Dio, ed è in questo quadro antropologico che trovano una possibile soluzione i tre nodi, come lo stesso Sanna ha posto in evidenza. All’etica del viandante senza orizzonti si offre lo sguardo del pellegrino, per il quale si ha una meta (progetto) data da Dio. Alla dilatazione del desiderio si indica la verticalizzazione degli ideali, nel senso etimologico in cui il vero desiderio (“de sideribus”, ossia “dalle stelle”) è ciò che deriva dal cielo, dal dono di Dio. Infine, la perdita della speranza si risolve con la nostalgia dell’infinito, dell’eternità.
Se ora volessimo tradurre in chiave monastica l’antropologia cristiana, ossia che l’uomo è immagine di Dio (quindi la centralità della fede), nel contesto della postmodernità, dovremmo situarla in un triplice orizzonte caratterizzato dal sapere che siamo pellegrini (non viandanti), quindi con una meta chiara e definita; dal desiderio fondato in Dio e non sull’io e da una speranza orientata al Trascendente, all’infinito, ma già presente nel nostro cuore. In una parola, la meta, il desiderio e la speranza per il monaco hanno un nome ben preciso, che la Regola di san Benedetto ripete con insistenza: Cristo.
La modalità con cui si giunge a Cristo ha nella spiritualità, naturalmente, un momento cardine e nella vita monastica essa si alimenta essenzialmente dell’opus Dei e della lectio divina. Non si deve pensare, però, ad una spiritualità disincarnata, intimistica o devozionale, ma ad una vita spirituale che accoglie in pienezza il Verbo della vita che si è fatto carne e che le nostre mani hanno toccato, come ci ricorda san Giovanni all’inizio della sua prima Lettera. Il nostro, infatti, è un Dio che non è apparso in mezzo alla storia dell’umanità come una cometa, senza toccare la terra e nemmeno come una tangente, toccandola in un punto solo, ma restandone in gran parte fuori. Il nostro è un Dio che ha scelto di irrompere in modo inaudito nella storia, senza esaurirsi in essa, attraverso l’Incarnazione: si è fatto carne attraverso una donna.
La rivelazione di Cristo è assolutamente nuova, assolutamente impensabile. E ciò che appare nel mondo è talmente sconvolgente che merita molto riguardo e molta pazienza. Tant’è che, alla luce dell’evento, non soltanto “Dio stesso si è rivelato” (Rm 1,19) ma tutto il creato è diventato visibile in modo totalmente nuovo, come leggiamo in Lc 8,17: “Non c’è niente di nascosto che non debba diventare manifesto”. La spiritualità, allora, deve seguire la legge dell’Incarnazione per essere cristiana, deve accogliere la storia come storia della salvezza, perché ciò che è spirituale non è fuori dalla storia, ma è una nuova visione della storia in cui la novità non è data da una semplice prospettiva umana (con il rischio di diventare ideologia) ma dalla presenza viva e vivificante di Dio stesso che cambia, da dentro, la storia. Non si tratta di una considerazione astratta, perché nell’Incarnazione il soggetto è Dio e proprio perché si tratta di Dio, divenendo uomo, non solo è entrato nella storia dell’umanità, ma si è calato nella storia concreta di ogni uomo, di tutti gli uomini di tutti i tempi, quindi anche nella mia storia concreta.
Oggi dobbiamo criticare infaticabilmente la scomparsa di una comprensione della storia come luogo della rivelazione di Dio. Infatti, l’Avvento è l’attesa per celebrare il mistero dell’Incarnazione, è l’antidoto al neo-gnosticismo che si insinua nella fede cristiana. Dio agisce nella storia. Dio si rivela per mezzo della storia. Più ancora, ecco lo scandalo di tutti gli scandali: Dio si inserisce nella storia, si incarna conferendole una “consacrazione religiosa”, che obbliga non solo a prenderla sul serio ma ad aver cura di essa. La vigilanza a cui ci invita questa domenica di Avvento deve stimolare il nostro cuore all’attesa del Dio che viene, che non deve trovarci viandanti ma pellegrini, desiderosi dell’incontro che dà senso alla nostra vita e che riempie la nostra speranza. “Il Signore, giusto giudice, darà la corona di giustizia a coloro che attendono con amore la sua venuta” (Cfr. 2Tm 4,8).
* Abate dell'Abbazia di Nostra Signora del Pilastrello (Lendinara)
[1] Gli atti sono stati pubblicati in R. Nardin (ed.), Vivere in Cristo. Per una formazione permanente alla vita monastica, Città Nuova, Roma 2004.