Come l'epidemia ha stravolto le elezioni presidenziali Usa
Con 46.771 morti, gli Stati Uniti sono, in termini assoluti, il Paese più colpito dall’epidemia di Covid-19. L’epidemia arrivata dalla Cina ha completamente stravolto l’agenda delle elezioni presidenziali. Per ora avvantaggia il Democratico Joe Biden. Ma anche Trump ha ancora molte frecce al suo arco.
Con 707.486 casi attualmente positivi e 46.771 morti (dati del 22 aprile), gli Stati Uniti sono, in termini assoluti, il Paese più colpito dall’epidemia di Covid-19. La situazione si ridimensiona se letta in termini relativi: gli Usa sono un continente con una popolazione che è poco più della metà di quella dell’intera Europa, in rapporto al totale del numero di abitanti sono al 14mo posto nella mortalità della malattia con 144 morti ogni milione di abitanti, contro i 415 dell’Italia. Benché l’impatto sia dunque di gran lunga inferiore rispetto a quello sul nostro Paese, l’epidemia arrivata dalla Cina ha completamente stravolto l’agenda delle elezioni presidenziali. Si voterà a novembre, ma già da ora si rileva un cambio di passo, di toni e di rapporti di forza.
Ad avvantaggiarsi della situazione è certamente Joe Biden, il candidato (ormai unico, anche se non ancora ufficiale) del Partito Democratico. L’ex vicepresidente di Barack Obama è passato in vantaggio su Trump in tutti gli Stati-chiave che nel 2016 avevano garantito la vittoria al Repubblicano. Secondo una media dei sondaggi effettuata da Real Clear Politics, Biden è avanti di 5,9 punti percentuali su scala nazionale rispetto a Trump, di 3,4 punti in Florida, 3,8 in Pennsylvania e 2,7 nel Wisconsin. Di tutti gli Stati in bilico, solo la Carolina del Nord confermerebbe Trump, se si votasse oggi, con un margine di appena 1,3 punti. Questi risultati sono tanto più sorprendenti se si considera il basso profilo della campagna di Biden, quasi del tutto sospesa a causa dell’epidemia. Mentre Trump è condannato a una super-esposizione mediatica, se non altro per le conferenze stampa quotidiane.
In quasi tutti i Paesi colpiti dall’epidemia, il premier o il presidente in carica è premiato per l’effetto “rally round the flag” (stringersi attorno alla bandiera/capo nel momento del pericolo). Come mai negli Stati Uniti non avviene quel che sta accadendo in Italia o in Germania? La risposta può essere nella maggiore sensibilità alla prospettiva economica. La disoccupazione riguarda ormai 22 milioni di americani, soprattutto in Michigan (disoccupazione cresciuta al 21%) e in Pennsylvania (20%). Disoccupazione in forte crescita anche in Wisconsin, Arizona e Carolina del Nord (10%) e anche in Florida (6%) dove è stata colpita duramente l’industria del turismo. Un disastro senza precedenti che rischia di bruciare, in un mese, i risultati di 4 anni di crescita economica.
Trump non può più giocare la carta del successo economico, ma punta tutto sulla ripartenza. Non a caso scalpita perché il lockdown finisca il prima possibile e sta già fissando le linee guida per la riapertura di tutte le attività economiche. La campagna democratica si sta invece facendo più aggressiva, puntando il dito sugli errori iniziali di sottovalutazione del presidente, quando ancora all’inizio di marzo sosteneva che il Covid-19 fosse assimilabile all’influenza e che il problema vero fosse l’allarmismo dei media.
Sulla voglia di ripartire, Trump non è solo. Si sta formando, in queste settimane, un movimento di base, con manifestazioni di piazza, che chiede ai governatori di riaprire le attività. A partire dal Michigan, questo movimento, che ha slogan e bandiere simili a quello del Tea Party (2008-2010) sfida i tabù della sicurezza sanitaria e gli ordini di “stare a casa”, chiedendo di non calpestare di diritti fondamentali di libertà, contro un potere troppo arbitrario. “C’è molta frustrazione su chi decide cosa sia essenziale e la gente sta soffrendo”, dice, per esempio, Tim Walters, militante del movimento Reopen Maryland. “Chiudere aziende scegliendo a priori vincitori e vinti, definendoli essenziali o non essenziali, è una violazione della Costituzione sia federale che statale”, reclama Tyler Miller, uno degli organizzatori del movimento nello Stato di Washington. I manifestanti non celano la loro maggiore simpatia per il presidente. Il nome di Trump e gli ormai celebri berretti Maga (Make America Great Again) spuntano numerosi in mezzo alle bandiere americane e alle bandiere gialle di Gadsden (della Rivoluzione Americana).
Trump non può interferire direttamente nelle decisioni dei singoli Stati, ma ha comunque l’opportunità di cavalcare le proteste, trasformandole in un movimento più organico contro lo statalismo all’europea dimostrato dai governatori democratici. Libertà contro sicurezza sarà uno dei temi portanti della prossima campagna elettorale estiva. Dall’altra parte, i colossi dell’informazione stanno invece dando una mano ai Democratici. Non solo i grandi media tradizionali, ma anche i social network, con politiche che passano i limiti della censura: Facebook ha già bannato alcune pagine degli organizzatori delle manifestazioni anti-lockdown, nell’ambito della lotta contro le “fake news” sul coronavirus.
L’altro fronte importante su cui si giocherà la partita sarà la politica estera. Trump ha tutto l’interesse a far pagare duramente alla Cina il prezzo della responsabilità per la diffusione dell’epidemia. Responsabilità che sono ormai sotto gli occhi di tutti, soprattutto per il silenzio colpevole che ha coperto per ragion di Stato l’inizio del contagio. Già il Regno Unito, la Francia e la Germania hanno protestato pubblicamente, l’Australia chiede un’indagine internazionale. E all’interno degli Usa, almeno uno Stato, il Missouri, è il primo ad annunciare di far causa per danni alla Cina. Trump potrebbe seguire questa linea e premere per una causa internazionale. I Democratici, a questo punto, si ritroverebbero nell’imbarazzante posizione di avvocati difensori del regime di Pechino.