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L'EDITORIALE

Come è difficile stare davanti alla realtà

Davanti alla tragedia di Oslo la prima reazione è cercare il senso di quanto avvenuto. Una domanda che è stata soffocata dall'informazione con etichette, pregiudizi e informazioni fuorvianti. Ma la realtà si dimostra più grande e più profonda di ogni schema.

Editoriali 25_07_2011

Davanti a una tragedia come quella di Oslo è inevitabile che la prima domanda sia “perché?”. Davanti a ciò che accade – tutto ciò che accade - la nostra ragione chiede il senso, è naturale. Fatti come quello di Oslo semplicemente rendono più urgente, più esplicita quella domanda. Sapere chi è l’autore del gesto, in fondo, è anzitutto condizione per rispondere al “perché”.

Ma non è facile rimanere a lungo davanti a questa domanda aperta, e lo abbiamo visto in questi giorni, in cui i media hanno fatto a gara per dare informazioni approssimative, errate, fuorvianti, palesemente false, ma che in ogni modo rientrassero entro un orizzonte conosciuto, che confermasse certi pregiudizi. Certo, c’è bisogno di informare, di dare subito gli elementi man mano che vengono fuori, ma c’è un modo di darli che soffoca la domanda, il desiderio di capire.

Si è cominciato subito con il terrorismo islamico. Sicuramente c’erano molti elementi che potevano far pensare a questa pista: l’autobomba, le minacce già ricevute da Oslo per la sua partecipazione alla guerra in Afghanistan, la forte immigrazione islamica, il fatto che da dieci anni tutti i paesi occidentali vivono con questo incubo. Ma un conto è avanzare ipotesi, un altro dare per certo ciò che certo non è. Ma le cose si sono complicate subito dopo: non era un islamico, ma il classico scandinavo: alto, biondo, perfino giovane. Un aspetto fisico che ne fa il neonazista perfetto: ecco allora un grande servizio del Tg2 che ci mostra la mappa dei presunti movimenti di estrema destra in tutta l’Europa settentrionale e orientale, mettendo insieme partiti e movimenti che non c’entrano l’uno con l’altro, dai partiti nazionalisti ai movimenti conservatori fino ai gruppuscoli xenofobi. Un oscuro movimento di opposizione all’illuminata Europa che chissà cosa trama.

Senonché, a un più attento esame dei fatti, il giovane terrorista non entra neanche nella “casella” del neonazismo: troppi elementi sfuggono a questa categoria. Ecco allora subito pronta un’altra definizione di comodo: siccome da qualche parte sui social network, l’autore della strage si era definito “cristiano” e “conservatore”,  cosa c’è di meglio che definirlo un “fondamentalista cristiano”? Per i laicisti di tutta Europa, che hanno in mano la stragrande maggioranza dei media, è una manna: così si dimostra che a creare problema sono le fedi religiose, tutte le fedi. E i cristiani non sono meglio degli islamici. Poco importa se anche questa definizione in realtà non si adatti allo stragista norvegese, e il nostro Massimo Introvigne, nell’articolo in Primo Piano, ci spiega bene il perché, e anche come certi servizi giornalistici tradiscano una profonda ignoranza di religioni e fondamentalismi.

Ignoranza, ma anche interessi ideologici: basta vedere cosa è successo alla traduzione della frase di John Stuart Mill che Anders Behring Breivik aveva citato in un intervento su Facebook: “Un uomo con un credo è più forte di 100mila uomini che pensano ai loro interessi”. La parola inglese “belief” (un credo, termine che si applica a qualsiasi convinzione forte) nella traduzione di Repubblica e di tanti altri è diventata “fede”. Come a dire: Vedete? E’ la fede, qualsiasi fede, che genera violenza. E invece sono proprio gli interessi ideologici a violentare la realtà, a ridurla per farla entrare nei propri schemi, ed è per questo che l’etichetta di “fondamentalista cristiano” è quella che continua a saltare da un giornale a un tg. Soltanto chi ha la pazienza di leggersi molti articoli capisce che la realtà di questo giovane, del movimento templare-massonico che avrebbe contribuito a fondare, è molto più complessa e sfugge a facili etichette.

Sembra proprio che in questa occasione la realtà si sia presa una rivincita sulle ideologie, si sia divertita a giocare con i nostri pregiudizi e i nostri schemi, scompaginando ogni volta le acquisizioni raggiunte. Non c’è niente da fare: la realtà è più grande di noi, non si lascia ingabbiare, e l’unico modo per comprenderla è aprirsi ad essa.

Ed è proprio qui che vorremmo tornare, al punto di partenza. Perché – pregiudizi, interessi ideologici, ignoranza o semplice deformazione professionale – di fronte a un gesto così enorme, all’irrompere improvviso e violento del male,  è sembrato che l’unico obiettivo dell’informazione e dei grandi opinionisti fosse placare quella domanda - “Perché?” – allontanando da noi ogni possibile chiamata in causa. Come ha involontariamente evidenziato il servizio di un tg nazionale: “Una volta appurato che non si trattava di terrorismo islamico, Oslo ha cercato di riprendere la sua vita normale…”. Ecco, l’importante è poter tornare alla vita normale, qualsiasi cosa essa significhi.

Molto più difficile e impegnativo cercare invece di capire, tenere aperta quella domanda – “Perché?” – che ci rende quel giovane norvegese e la sua violenza molto più vicine e ci interroga anche sul nostro male, su ciò che possiamo diventare se smettiamo di amare la verità prima di ogni altra cosa.

Chesterton diceva che il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma colui che ha perso tutto fuorché la ragione. Leggendo le lucide analisi e progetti lasciati scritti, è certamente questa la definizione che meglio descrive la follia del giovane norvegese. Ed è una follia molto diffusa nella nostra società secolarizzata e anti-religiosa: anche se non sfocia necessariamente in queste esplosioni di violenza, tanti sono i segnali inquietanti che si colgono nella nostra Europa, dove la vita perde più valore dell’euro e si restringe ogni giorno di più la libertà delle persone.

Tenere aperta la domanda sul perché di questa violenza, stare davanti alla realtà, è il primo passo per invertire la direzione.