Colto, determinato, spietato: ecco il jihadista modello
Chi sono i jihadisti? Che cosa induce uomini e donne a votarsi alla guerra santa? Non la povertà o la mancanza di prospettive. La strage di Garrissa lo conferma: i killer erano insegnanti e universitari modello, uniti da una sola certezza. A spiegarlo è il giornalista Domenico Quirico nel suo libro, Il grande Califfato.
Chi sono i jihadisti? Che cosa induce uomini e donne in tutto il mondo a votarsi al jihad, la guerra santa? La povertà, è la risposta più frequente: la mancanza di prospettive di giovani senza futuro. Ma invece molti terroristi non provengono dalle periferie del mondo, reclutati tra i disperati. Non è certo il caso della mente dell’attacco degli al Shabaab somali del 2 aprile al campus universitario di Garissa, in Kenya. Si chiama Mohamed Kuno, è un kenyano di origine somala di circa 30 anni, marito e padre. Fino al 2007 è stato preside di una madrassa, una scuola di Corano, proprio a Garissa. Poi si è unito ai jihadisti somali e da allora ha organizzato diversi attentati in Somalia e in Kenya. Addestra in particolare le donne suicide. Si dice che abbia usato come bombe umane anche una delle sue mogli e una figlia.
Uno dei terroristi di Garissa, ucciso dalle unità speciali, è un ragazzo kenyano laureato in legge all’università di Nairobi. Ha raggiunto gli al Shabaab in Somalia nel 2013 subito dopo la laurea. Era figlio di un funzionario governativo. La sua famiglia lo aveva fatto studiare in una delle migliori scuole private del paese. Era un ottimo studente, dicono di lui, e lo attendeva una brillante carriera di avvocato. Nei mesi scorsi aveva tentato di unirsi all’Isis, ma non era riuscito a lasciare il Kenya perché il suo passaporto non era in regola.
Cinque persone sono state arrestate perché sospettate di aver collaborato all’organizzazione dell’attacco del 2 aprile. Di una si conosce l’identità. È un ragazzo, Rashid Charles Mberesero, cittadino del vicino Tanzania. Ha 21 anni. Anche lui era uno studente modello. Sua madre ha raccontato che aveva superato gli esami di scuola secondaria a pieni voti. La famiglia pensava che stesse per iscriversi alla facoltà di medicina. Ora è rinchiuso nelle carceri kenyane mentre si indaga sul suo ruolo nella strage di Garissa. Non era un reietto, senza futuro e senza speranze, neanche Jamal Kiyemba, l’uomo di 36 anni arrestato in Uganda per concorso nell’omicidio del procuratore capo della divisione crimini di guerra e antiterrorismo Joan Kagezi, uccisa nella capitale Kampala il 30 marzo, mentre rappresentava la pubblica accusa nel processo a 13 jihadisti al Shabaab accusati dell’attentato a un bar compiuto nel 2010 che ha provocato 76 vittime. Jamal, di nazionalità ugandese, nel 1993 all’età di 14 anni, è andato a vivere in Gran Bretagna dove ha studiato farmacia presso l’università di Leicester e dove, a 20 anni, si è convertito all’Islam. Trasferitosi in Pakistan due anni dopo, nel 2002 è stato arrestato per legami con al Qaeda e portato a Guantanamo. È stato liberato nel 2006, risarcito con quasi un milione e mezzo di dollari – è uno dei detenuti che avrebbero ammesso di essere terroristi sotto tortura – e trasferito dalle autorità statunitensi nel suo paese di origine dopo che il governo britannico ha più volte rifiutato di lasciarlo tornare in Inghilterra.
Qualunque sia la loro storia e la loro estrazione sociale, c’è qualcosa che accomuna i terroristi dopo la loro scelta jihadista. A spiegarlo nel suo libro, Il grande Califfato (Neri Pozza, 2015), è Domenico Quirico: qualcuno che li conosce a fondo per averli osservati sia da professionista, inviato speciale nelle regioni flagellate dal jihad – dalla Cecenia al Niger, dall’Algeria al Mali – sia da ostaggio, catturato in Siria nel 2013, per 152 giorni prigioniero di Jabhat al Nusra. La prima caratteristica di quelli che Quirico chiama i «guerrieri di Dio senza rimorsi», individuata nei giorni della prigionia, è l’irrilevanza ormai per tutti di ciò che sono stati prima di diventare jihadisti. Nazionalità, mestiere, famiglia, posizione sociale: nulla più conta.«Ci sono quelli che non ricordano neppure più il mestiere. (…) Il loro mestiere ormai è unico, ha piallato le loro biografie, smussato gli angoli, ricondotto tutto a una tragica uniformità. Sono i soldati di Dio, il loro mestiere è la guerra, solo questi sono i loro ricordi, la loro vita fuori di qui sembra sia stata aspirata in un sacco e gettata via».
La loro seconda caratteristica è di essere diventati dei professionisti del jihad: non dei combattenti che immaginano il tempo in cui la guerra sarà finita, che anelano a tornare alla vita civile, con le famiglie, un lavoro, gli svaghi consueti, ma persone che vivono nella guerra e per la guerra, per sempre, senza altro futuro che la lotta a oltranza: «uomini semplici ulteriormente semplificati, con istinti primordiali acuiti dalla forza degli eventi: istinto di conservazione, fede, gioia della preghiera, sensazione di essere dalla parte giusta del mondo, odio per l’impuro». Poi, da giornalista, Quirico nel suo libro delinea, rievocando eventi, personaggi, luoghi conosciuti nell’arco di due decenni, il lineamenti del Grande Califfato, nel tempo e nello spazio: nel tempo, a partire dalla Cecenia, nel 1995; e nello spazio, perché il Califfato comprende adesso territori in tutta l’Africa sahariana e nella fascia sottostante, da un oceano all’altro: dalla Mauritania alla Somalia, dalla Nigeria al Kenya.
«Quel che mi ha convinto della realtà del progetto del Califfato», scrive Quirico, «non sono state le parole del califfo di Mosul, le sue minacce. È la constatazione che io ho già attraversato i territori del califfato, dall’Africa al Medio Oriente. Sono lì, un tassello dopo l’altro, vietati a noi occidentali. (..) La scomparsa di spazi immensi del mondo dalla nostra testimonianza diretta e dal nostro racconto: questa è la prova, (…) territori in cui milioni di uomini ogni giorno rendono obbedienza al califfato, applicano e subiscono le sue regole implacabili».
Da qualche giorno, con due nuove adesioni, il “Grande Califfato” è diventato ancora più grande. Il 10 aprile alcune agenzie di stampa tra cui Misna hanno battuto la notizia che i talebani pakistani di Bajaur hanno riconosciuto come Califfo al Baghdadi, il fondatore dell'Isis. L'11 aprile l'agenzia di stampa Reuter ha confermato che una cittadina della Bosnia, Gornja Maoca, situata a un'ora di volo soltanto da Vienna, ha giurato fedeltà all'Isis e ha innalzato le nere bandiere del Califfato.