Clint Eastwood e l'inevitabile imperfezione della giustizia umana
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Un giurato scopre di essere lui il colpevole e non l'imputato alla sbarra. Ma se lo confessa la sua vita è rovinata, se non lo confessa un innocente sarà condannato. Dilemma insolubile nell'ultimo film di Clint Eastwood, Giurato numero 2.
A 94 anni suonati, Clint Eastwood si è messo di nuovo dietro la cinepresa. Poi ha avuto anche l’energia di protestare e di disertare l’anteprima statunitense, perché i distributori, negli Usa, lo stanno proiettando in pochissime sale, un vero boicottaggio anche se non dichiarato. Il film in questione è: Giurato numero 2.
Oltre al danno inflitto dalla distribuzione americana, si tratta di una pellicola che rischia di passare inosservata, perché è schiacciata da veri colossi del cinema “blockbuster”, quali Il Gladiatore 2 e The Substance, che stanno riempiendo le sale, sottraendo attenzione della critica e pubblico al vecchio Clint. Insomma, peggio di così le circostanze non potrebbero essere. Ma Giurato numero 2 merita assolutamente di essere visto e non solo per rispetto al vecchio fenomenale Eastwood.
Il film si apre con una scena idilliaca sulla vita di un americano tranquillo, il giovane Justin Kemp, di Savannah, Georgia. Sua moglie sta per partorire e lui le fa trovare la stanzetta già arredata per accogliere il figlio. Gli amici gli organizzano una festa e lui ringrazia loro e la moglie per averlo aiutato ad uscire dalla sua dipendenza (che poi si scoprirà essere l’alcolismo). La sua vita è fuori dal tunnel e sta per diventare padre, dunque, ma c’è una piccola scocciatura a cui quasi non fa caso: viene estratto a sorte per partecipare a un processo per omicidio volontario, in veste di giurato. Negli Usa è la giuria che decide se l’imputato è colpevole o innocente, quindi si tratta di un ruolo molto più importante che in Italia.
Justin si ritrova coinvolto, volente o nolente, in un caso di cui non sa nulla e che invece sta appassionando l’opinione pubblica in tutto lo Stato della Georgia. Un bruto con gravi precedenti penali è stato visto litigare furiosamente con la sua compagna in un pub, poi lei esce sotto la pioggia, lui la insegue e il giorno dopo la donna viene trovata morta, sotto un ponte, in un ruscello, con le ossa rotte. Il colpevole, secondo tutti, è già chiaro, ovvio. Ma Justin ha un dubbio: quella notte lui c’era, ha fatto la stessa strada della donna. Era buio, pioveva a dirotto, per un secondo si è distratto per un messaggio al cellulare mandato dalla moglie e proprio in quel momento: ha urtato qualcosa di grosso, esattamente su quel ponte. Non avendo visto nulla, fino a quel momento era convinto di aver urtato un cervo. Ma si rende conto che quell’animale… era la vittima. E che il colpevole non è il bruto alla sbarra, ma lui, giurato, che deve decidere del suo destino. Si informa subito presso il suo avvocato di fiducia: se si costituisse, si beccherebbe fino a 30 anni di carcere per omicidio stradale. Da ex alcolizzato, nessuna giuria lo assolverebbe.
Inizia così il dilemma che ci accompagna per tutto il film: come fare a salvare un innocente e se stessi, quando si è gli unici a conoscere la verità? Non possiamo rivelare né lo sviluppo, né il finale del film, ma già da qui si capisce che questa situazione, comunque finisca, finirà male, con un atto di ingiustizia.
La maestria di Clint Eastwood ci porta dentro la mente e il cuore del suo sfortunato protagonista e dei giurati che condividono, inconsapevoli, il suo dramma esistenziale. Il rapporto fra verità e giustizia è il primo dei grandi temi affrontati, il più esplicito. La verità può essere disgiunta dalla giustizia? Fino all’ultimo il protagonista vuole salvare un innocente, ma al tempo stesso è tentato di seppellire la verità, votando per una condanna ingiusta, pur di salvare la sua vita e il suo futuro. E non solo per egoismo o istinto di sopravvivenza, ma perché lui stesso si ritiene vittima di un’ingiustizia: verrebbe condannato per un delitto che è in realtà un incidente di cui era assolutamente ignaro, finché non gli è capitato, in un’aula di tribunale quel “fulmine a ciel sereno” che lo ha reso consapevole. Una giuria, composta di cittadini di tutte le età, etnie ed estrazioni culturali, come quella in cui è inserito, lo condannerebbe senza ombra di dubbio, al massimo della pena.
Clint Eastwood fa ripetere come un mantra, ai poliziotti, agli avvocati, ai giurati, che il processo con giuria sia un sistema imperfetto, ma il migliore che esista. Non lo mette in discussione, Giurato numero 2 non è un film di critica alla giustizia americana. Non c’è neppure la pena di morte all’orizzonte. Ma l’elogio del sistema di giustizia “meno imperfetto” del mondo suona come una barzelletta, se recitato in quelle circostanze. La procuratrice (equivalente del Pm da noi), l’avvocato difensore, la giudice e tutti e 12 i giurati, sono uomini. Agiscono e pensano sulla base dei loro pregiudizi, delle loro ambizioni o semplicemente del loro vissuto. La procuratrice ha fretta di concludere il caso con una condanna: crede di aver trovato il caso che le permetterebbe di essere eletta nelle imminenti votazioni per il ruolo di procuratore generale. La giuria è fatta di persone più o meno colte, più o meno preparate, ma estranee ai fatti e tutto sommato interessa loro chiudere in fretta e tornare alle loro occupazioni quotidiane, senza pensare troppo alla ricerca della verità. Fra loro c’è il poliziotto in pensione che ritrova la gioia di tornare a indagare su un mistero. Un giurato, la cui comunità è stata rovinata dalla presenza di una gang di cui l’imputato ha fatto parte (anche se pure lui, come Justin, è appena uscito dal tunnel), vuole la sua condanna a tutti i costi. Persino il testimone “chiave” sbaglia completamente la sua identificazione della persona che ha visto. Ma in perfetta buona fede: è l’unica persona di cui la polizia gli ha parlato e gli ha mostrato la foto.
Dal cinema si esce con una sola convinzione: anche nel sistema meno imperfetto, ottenere giustizia è impossibile. Perché siamo uomini, appunto. Quindi siamo limitati, non possiamo leggere nel cuore dell’uomo, non possiamo mai arrivare alla verità, al massimo ad una sua approssimazione e mai saremo liberi dei nostri pregiudizi. Ci sarebbe una soluzione: non c’è una giustizia umana, ma c’è almeno una giustizia divina che ci giudicherà alla fine dei tempi. E sarà l’unico giudizio perfetto, l’unico in grado di distinguere esattamente un innocente da un colpevole. Ma Clint Eastwood non ci dà neppure questa speranza. Non ci parla di Dio, ci parla solo dell’uomo e della sua assoluta limitatezza terrena. Una nota di pessimismo che lascia l’amaro in bocca per un film che potrebbe essere la sua ultima opera.