Clima, la Corte Suprema congela Obama
La Corte Suprema congela il piano di Barack Obama per la riduzione di emissioni. Ha ordinato all’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente di aspettare gli esiti di una causa in corso, prima di imporre le rinnovabili agli Stati.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha congelato il piano di Barack Obama per la riduzione di emissioni di Co2. Ha ordinato all’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (Epa) di aspettare gli esiti di una causa in corso, prima di pretendere dagli Stati un piano di conversione delle loro fonti energetiche, dal carbone alle rinnovabili, come era previsto nel piano di Obama.
Il Clean Power Plan (piano per l’energia pulita) della Casa Bianca era considerato uno dei maggiori successi politici dell’amministrazione democratica. Consiste in una riduzione complessiva delle emissioni del 32% entro il 2030, puntando molto sulle energie rinnovabili. Per ottenere questo risultato, il presidente è ricorso ancora una volta ad una notevole centralizzazione del potere. Ogni Stato, infatti, ha una propria politica energetica e si basa sulle risorse che costano meno e sono più abbondanti nel suo territorio. Secondo il piano di Obama, l’Epa deve ricevere da ogni Stato un piano di conversione, possibilmente entro il settembre prossimo, al massimo entro il 2018. Una volta approvato, questo programma di passaggio dal carbone alle rinnovabili, deve essere portato a termine entro il 2022. Per la maggioranza degli Stati americani, il passaggio dal carbone alle rinnovabili comporterà costi notevoli, sia in termini economici che umani (perdita di posti di lavoro). Il carbone è una fonte molto economica e viene usata anche dalle compagnie più piccole per fornire energia a basso costo. Al contrario, le rinnovabili (solare, eolica, idroelettrica, geotermica, biomasse, marina) sono ancora, in parte, nel regno della sperimentazione, il loro costo è decisamente più alto e la loro produttività è ancora discutibile rispetto alle fonti fossili. Essendo ancora fuori mercato, le rinnovabili necessitano di sussidi e incentivi statali. Il risultato è che, posti di fronte al Clean Power Plan, 27 Stati (su 50 che compongono gli Usa) e diverse compagnie che sfruttano il carbone, hanno fatto causa al governo, sostenendo che l’Epa stia andando ben oltre i suoi compiti. L’Agenzia, infatti, giustifica la sua azione in base a un’altra legge, la Clean Air Act (legge sull’aria pulita), che secondo gli Stati in questione, non prevede affatto l’obbligo di fornire all’Agenzia un piano di transizione da una fonte energetica all’altra. Nel frattempo, in attesa di una sentenza sul caso, hanno chiesto di sospendere il Clean Power Plan.
Dopo una prima sentenza negativa a gennaio, dalla Corte di Appello di Washington Dc, che non ha autorizzato alcuno stop, il caso è finito alla Corte Suprema. Che con una votazione di 5 giudici contro 4, ha dato ragione agli Stati. Il massimo organo giuridico statunitense non è entrato nel merito della questione, ma ha ordinato, appunto, solo una pausa. Fino a quando? Fino a quando la questione non sarà decisa da una sentenza della Corte d’Appello, che dovrà dare ragione o agli Stati (fermando, così, questa parte essenziale del Clean Power Plan) o all’Epa. Una prima udienza è prevista per il prossimo 2 giugno e la sentenza arriverà, probabilmente, in autunno inoltrato. Sarà dunque il prossimo presidente a dover gestire la questione. E per Obama è già una sconfitta: non potrà apporre la sua firma alla sua “rivoluzione verde”. Sono passati appena due mesi da quando, a Parigi, il presidente americano ha promosso il nuovo accordo internazionale sul clima alla conferenza Cop21 e questa battuta d’arresto, in casa sua, è già una brutta figura mondiale, comunque vada a finire. La Casa Bianca, che come di consueto entra a gamba tesa nei processi giudiziari, esprimendo il suo punto di vista su quel che i giudici dovrebbero o non dovrebbero fare, ha emesso un comunicato bellicoso: “Esprimiamo il nostro disaccordo con la decisione della Corte Suprema di sospendere il Clean Power Plan mentre la causa è in corso. Il Clean Power Plan è infatti fondato su solide basi legali e tecniche, concede agli Stati la flessibilità e il tempo che necessitano per sviluppare un piano volto a ridurre le loro emissioni e a garantirci una miglior qualità dell’aria e della salute pubblica, investimenti nell’energia pulita e creazione di posti di lavoro nel paese, oltre a compiere progressi nella nostra azione di contrasto dei rischi legati al riscaldamento globale. Siamo ancora sicuri che prevarremo in merito”. Tuttavia la Corte Suprema ha appena messo in dubbio queste “solide basi legali” e soprattutto gli Stati che hanno fatto causa al governo considerano che i vantaggi elencati dalla Casa Bianca non siano sufficienti a compensare i rischi, i costi e le perdite che subirebbero.
La sentenza della Corte Suprema è importante per due motivi. Prima di tutto è una battuta d’arresto (sia pur limitata e temporanea) al processo di centralizzazione del potere nelle mani della Casa Bianca. Un percorso che ha subito una brusca accelerazione negli ultimi tre anni, con l’approvazione definitiva dell’Obamacare (riforma della sanità) e poi con la sentenza Obergefell v. Hodges, quella che ha introdotto l’obbligo di legalizzazione dei matrimoni omosessuali in tutti e 50 gli Stati. I diritti degli Stati, la loro autonomia legislativa e politica, è stata via via erosa dall’amministrazione Obama, sostenuta dalla Corte Suprema a colpi di sentenze. Sia nel caso dell’Obamacare che nella sentenza Obergefell v. Hodges, la Casa Bianca non ha nascosto la sua opera di pressione sui giudici. Questa sentenza sul Clean Power Plan è una piccola ma significativa inversione di tendenza: i diritti degli Stati hanno prevalso sulla volontà del governo federale. Da un punto di vista economico, invece, è la dimostrazione che le politiche di contrasto al riscaldamento globale, come la riduzione delle emissioni e gli investimenti sulle rinnovabili, siano fuori-mercato e difficilmente potranno essere adottate spontaneamente. Prevalgono solo laddove sono imposte da un governo, a spese soprattutto del contribuente. I 27 Stati che hanno fatto causa al governo federale, a partire dalla West Virginia, hanno messo sul piatto della bilancia costi e perdite di posti di lavoro nel breve periodo e la lotta al global warming nel lungo (e nell’incerto). E hanno scelto, razionalmente, di non rinunciare al certo per un incerto.