Cina-Vaticano, appello al Papa dei dissidenti cinesi
Ottanta Ong per la difesa dei diritti umani in Cina, fra cui anche alcune organizzazioni vietnamite, scrivono a Papa Francesco in vista del rinnovo dell'accordo fra Cina e Santa Sede, previsto per il prossimo 22 settembre. Chiedono che sia reso pubblico il contenuto dell'accordo di due anni fa, perché il Partito Comunista non lo prenda a pretesto per nuove persecuzioni religiose.
Ottanta organizzazioni scrivono a Papa Francesco in vista del 22 settembre, data in cui scadrà l’accordo biennale stipulato nel 2018 fra la Santa Sede e il regime neo-post-comunista cinese. Il perno dell’accordo ruota attorno alle modalità di nomina dei vescovi cattolici cinesi, ma il suo testo resta ancora segreto e dunque oggetto solo di speculazioni.
Il primo a speculare è del resto proprio il Partito Comunista Cinese (PCC), che ha sempre interpretato l’accordo come il “via libera” vaticano all’unificazione fra l’Associazione patriottica cattolica cinese (APCC) e la Chiesa “clandestina”. La prima è stata creata nel 1957 dal regime (assieme ad altre quattro organizzazioni simili per cristiani protestanti, islamici, buddhisti e taoisti), sospesa nei momenti più sanguinosi della persecuzione maoista, e poi ripristinata per infiltrare e controllare i cattolici; la seconda è quella che ha pagato la fedeltà a Roma un prezzo di sangue enorme.
Fa niente se il Vaticano, pur auspicando la fine di questa frattura grave, ha sempre sottolineato che chi si fosse rifiutato di aderire all’APCC avrebbe dovuto essere e deve essere rispettato. Fa niente se il 28 giugno 2019 il Vaticano ha promulgato apposta gli «Orientamenti pastorali della Santa Sede riguardanti la registrazione civile del clero in Cina» per ribadirlo. Fa niente, appunto: il PCC ha sempre imposto la propria linea.
Il Vaticano avrebbe potuto impuntarsi? Forse, ma tutto sta proprio nel famoso documento. Finché non se ne conoscerà il contenuto, ogni illazione resta tale. Per questo alla sua scadenza il Vaticano potrebbe tagliare la testa al toro rendendolo pubblico. E magari rivederne quelle parti che hanno sinora permesso al PCC di spadroneggiare. O minacciare di non rinnovarne la stipula, se il regime non cambierà rotta. Di fatto è questo quello che chiede la lettera delle 80 organizzazioni che scrivono, «con grande preoccupazione», al Pontefice affinché «[…] la Santa Sede riconosca le implicazioni gravi che comporta ogni accordo con la Repubblica Popolare Cinese» dal momento che il PCC conduce «[…] una guerra contro la religione» e si macchia di «crimini contro l’umanità».
I firmatari sono di obbedienza cristiana protestante, cattolica, musulmana, buddhista o appartengono a nuovi movimenti religiosi della diaspora cinese nel mondo, ma pure del Vietnam e dell’Australia. Vi figurano alcune delle sigle più importanti dell’universo uiguro e associazioni che si battono per la libertà religiosa nel mondo. «Rispettosamente ci permettiamo di suggerire», sottolineano al Santo Padre, «che la guida esemplare della Chiesa Cattolica è essenziale per la soluzione di questa tragica situazione».
A promuovere la lettera è l’International Religious Freedom Roundtable (IRFR), che offre a Washington preziosi spazi di coordinamento e di lavoro a tutti i gruppi e a tutte le realtà che pongono la libertà religiosa (non il dialogo interconfessionale, che è un’altra cosa) al centro, siano essi rappresentanti della società civile o pezzi delle istituzioni. In otto anni l’IRFR ha radunato attorno a un tavolo 250 sigle e ha lanciato più di 100 iniziative, fra cui, per esempio, il recente appello al presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, che alla fine è tornata sui propri passi, contro l’abolizione dell’ufficio dell’Inviato speciale dell’Unione Europea per la libertà religiosa fuori dai confini europei, svolto con bravura dallo slovacco Ian Figel’.
«Le autorità cinesi», prosegue la lettera, «hanno dichiarato di volere riscrivere i testi religiosi, compresa la Bibbia e il Corano, affinché, come ha stabilito il segretario del Partito Comunista Cinese, Xi Jin Ping, “riflettano i valori socialisti”». Intanto prosegue non solo «[..] il genocidio contro il popolo uiguro», ma anche «[…] la brutale oppressione di tibetani, mongoli, cittadini di Hong Kong e di tutti coloro che rivendicano i diritti umani, fra cui il diritto dei credenti di praticare la propria fede».
A promuovere l’iniziativa fatta propria dall’IRFR sono i vietnamiti di Boat People SOS e Campaign for Uyghurs, una ONG fondata e diretta fuori Washington da Rushan Abbas, che paga a caro prezzo le proprie battaglie contro il totalitarismo cinese. Per ritorsione contro i suoi vibranti interventi pubblici a denuncia della situazione in cui languono fino a tre milioni (dicono le statistiche più recenti) di uiguri (e altre migliaia di credenti turcofoni di varie etnie) nei campi di detenzione dello Xinjiang, molti suoi parenti sono scomparsi nel nulla l’11 settembre 2018, segnatamente sua sorella, Gulshan Abbas. La donna è finita in una di quelle strutture detentive dove si tortura e si muore (solo perché si è di etnia diversa da quella cinese han e perché si è credenti) che il regime di Pechino chiama “scuole di avviamento professionale”: peccato che la signora Gulshan sia un medico professionista affermato, già in pensione da qualche anno al momento del rapimento. Perché soffermarsi su di lei, una fra milioni di persone perseguitate? Perché dare un nome e un volto ai detenuti che il regime inghiotte con la complicità del silenzio tiene accesi i riflettori, rendendo più difficile il lavoro agli aguzzini.
Ora, nei due anni intercorsi dall’accordo fra regime e Vaticano, ricorda la lettera delle 80 organizzazioni, «[…] l’atteggiamento delle autorità cinesi nei confronti della libertà religiosa si è deteriorato in maniera significativa». Per questo «la decisione della Santa Sede di regolarizzare lo status della Chiesa Cattolica in Cina riconoscendo ufficialmente l’“Associazione patriottica cattolica” istituita e controllata dal governo non solo esacerberebbe le difficoltà del clero e dei fedeli cattolici che hanno coraggiosamente resistito alla pressione del governo […], ma aumenterebbe anche la sofferenza di tutti gli altri credenti, consentendo al regime di vendere l’accordo come l’approvazione del modo in cui il regime si relaziona alla religione».
Ecco, in Cina i credenti, di qualsiasi religione, non sanno più, letteralmente, a quale santo votarsi. Ora si aggrappano al Papa. Aspettando.