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COMUNISMO

Cina, "normalizzazione" di Hong Kong e della Mongolia

Come volevasi dimostrare: le autorità cinesi stanno anche riscrivendo i libri di storia di Hong Kong, eliminando anche Tienanmen. E in Mongolia Interna, intanto, stanno sostituendo la lingua mongola con il cinese in tutte le scuole

Esteri 24_08_2020 English
Tempesta su Hong Kong

Come c’era da attendersi, la nuova Legge per la sicurezza nazionale, votata dall’Assemblea Nazionale del Popolo di Pechino e imposta a Hong Kong il 30 giugno, non riguarda strettamente la “sicurezza nazionale”. Sulla spinta della nuova normativa, infatti, le autorità di Hong Kong stanno anche cambiando la storia: i libri di testo scolastici della storia cinese iniziano ad essere riscritti secondo le linee ideologiche del Partito Comunista.

Lo denuncia l’associazione Education Breakthrough and Progressive Teachers’ Alliance che riunisce studenti e insegnanti filo-democratici di Hong Kong. Il gruppo denuncia come le autorità abbiano iniziato a rimuovere espressioni come “separazione dei poteri” e “disobbedienza civile”. Il problema dell’inquinamento in Cina viene minimizzato e le informazioni sulla censura cinese sui film occidentali è distorta. La cartina di tornasole della nuova ideologia, però, resta Piazza Tienanmen. I nuovi testi ne parlano? E come? Le notizie che arrivano da Hong Kong non sono affatto rassicuranti, secondo il sito Web di hk01.com, tre testi su cinque sottoposti a revisione dal governo, non nominano neppure il massacro di Pechino del 4 giugno 1989. Gli altri due ne parlano, ma in termini sottilmente edulcorati, abbastanza per non comprenderne la portata. Una delle due ha rimosso anche l’intera storia della repressione, costata migliaia di morti (da 2mila a 10mila a seconda delle fonti) e in generale non si parla delle cause scatenanti della protesta studentesca e operaia del 1989: la corruzione, prima di tutto, ma anche la mancanza di democrazia e libertà in Cina.

Un insegnante in pensione di storia, intervistato dal South China Morning Post ha commentato uno dei due testi scolastici che ancora parlano di Tienanmen. L’insegnante, benché trovi che gli eventi siano descritti ancora in modo onesto e accurato, rileva che ad essi si dedica poco spazio: appena 7 pagine in un capitolo di 67 dedicato alle riforme di Deng Xiaoping. Si fa poca o nessuna menzione sugli effetti provocati dal massacro nelle relazioni internazionali della Cina (fra cui l’embargo sulle armi). Gli eventi di Tienanmen vengono chiamati “incidente del 4 giugno”, nessuno accenno al “movimento democratico”. Il testo attribuisce la causa dell’incidente alle tensioni sociali ed economiche causate dalle riforme e non all’assenza di riforme democratiche al fianco di quelle di mercato. Parrebbe dunque che la rivolta sia uno degli “ostacoli” incontrati dalla politica riformatrice di Deng. Quanto allo stesso “timoniere”, il libro riporta commenti di accademici e politici stranieri, sei dei quali positivi e due “misti”, ma nessuna critica vera e propria.

Secondo un’altra associazione attiva nell’enclave, la Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements of China, si dice “sbalordita” per le omissioni su Piazza Tienanmen nei nuovi libri di testo. “Hanno cancellato ogni descrizione oggettiva e accurata dell’evento, dall’inizio alla fine – si legge nel comunicato dell’associazione – Queste revisioni non sono solo basate su una narrazione faziosa per confondere i fatti, ma sono dei tentativi deliberati di nascondere la verità e di alterare il corso degli eventi, trasformando un massacro sanguinoso in un’azione volta a mantenere l’ordine pubblico”.

Hong Kong, insomma, sta finendo sotto la “normalizzazione” cinese, come si è potuto constatare anche dall’arresto di Jimmy Lai, editore dell’Apple Daily (quotidiano dell’opposizione) e dalla gigantesca operazione di polizia nella sede della sua redazione, eseguita a mo’ di intimidazione. Lo si è potuto constatare anche dal ritiro di libri pro-democratici dalle biblioteche pubbliche di Hong Kong, decisione che viene vista come il precursore di un loro ritiro dal commercio.

La “normalizzazione” di Hong Kong fa il paio anche con la contemporanea “sinizzazione” della Mongolia Interna. Come il Tibet e il Xinjiang, si tratta di una regione a maggioranza non cinese, che finora aveva goduto dello status di Regione autonoma. Ma esattamente come in Xinjiang ai danni degli uiguri, Pechino sta iniziando la sua opera di rieducazione della popolazione locale, a partire dalla lingua usata nelle scuole. Nonostante le proteste di genitori e studenti, dal 1 settembre la lingua usata nelle elementari e medie sarà il cinese mandarino invece della lingua mongola. In teoria si tratta dell’introduzione del “bilinguismo” nelle scuole, ma di fatto si tratta di una sostituzione progressiva di una lingua con un’altra perché, secondo quanto denuncia il Southern Mongolian Human Rights Information Center, sempre più materie saranno insegnate solo in cinese e non in mongolo. Dal settembre dell’anno prossimo, la stessa riforma riguarderà le scuole superiori. Interessante notare che le materie che verranno insegnate in cinese sono proprio: storia ed educazione politica.

Hong Kong e Mongolia Interna, ai poli opposti della Cina, sembrano due casi distinti e distanti, ma sono in realtà due facce della stessa politica. Il regime comunista cinese non ammette minoranze difformi e non ammette il dissenso, intende eliminare le une e l’altro fin nel dettaglio. Mette le mani sulla storia, sulla memoria, sulla cultura e sulla lingua, per creare un popolo di sudditi fedeli, dalle steppe nordiche della Mongolia fino alle isole tropicali del Mar Cinese Meridionale. Questa grande spinta di assimilazione forzata dovrebbe far riflettere a maggior ragione, chi si accinge a firmare il rinnovo degli accordi Cina-Vaticano. Quale indipendenza verrebbe mai concessa alla Chiesa universale da un regime così monolitico?