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CRISI

Cina, il colosso economico dai piedi d'argilla

Dopo il crollo della Borsa di Shanghai e il rallentamento del settore manifatturiero, arriva la svalutazione dello yuan, deciso dalla Banca Popolare Cinese per incoraggiare le esportazioni all'estero. Il colosso cinese si trova alle prese con una crisi che rivela tutta la fragilità del suo sistema.

Economia 14_08_2015
Banca Popolare della Cina

La Cina entra in crisi, svaluta la sua moneta (lo yuan) più di quanto abbia fatto in 20 anni e preoccupa anche i mercati occidentali. Ma solo fino a un certo punto. Infatti, dopo i primi due giorni di quasi-panico, le borse di tutta Europa e quella del Giappone, chiudono in positivo o in pareggio, solo quella di Wall Street con un leggero calo. La spiegazione più semplice di quel che è avvenuto è che la Cina ha fatto un bagno di realtà e, dopo un po’ di sconcerto, noi ne abbiamo preso atto.

La decisione della Banca Popolare Cinese (la banca centrale di Pechino) è ufficialmente motivata dalla necessità di allineare il prezzo dello yuan al suo reale valore di mercato. Lo Stato, nel regime cinese, ha ancora pieni poteri di manipolazione valutaria e finora ha mantenuto il valore della sua valuta artificiosamente alto. Nel momento in cui ha deciso di allinearlo al valore attuale del mercato delle valute, ne è derivata una triplice svalutazione in tre giorni. La regola (politica) imposta alla banca centrale era quella di limitare le oscillazioni del valore della yuan al + o – 2%. Ad oggi, in 72 giorni, lo yuan ha perso il 4,65%. Si tratta, appunto, della più grande svalutazione dal 1994. Ma il precedente quasi non fa testo, perché allora la Cina adottò per la prima volta il mercato dei cambi. In questa seconda, piccola, rivoluzione valutaria, la Banca Popolare non fissa più il valore ufficiale dello yuan in base a un sondaggio fra i principali operatori del mercato, ma tenendo conto anche della legge della domanda e dell’offerta, sia della propria valuta che delle principali monete internazionali. Il Fondo Monetario Internazionale è stata la prima istituzione internazionale ad esprimere soddisfazione per questo cambio di rotta, poiché era questa una delle condizioni fondamentali per inserire lo yuan nel paniere delle “monete di riserva”, assieme a euro, dollaro, yen e sterlina. Anche la Banca Centrale Europea e la Fed possono trarre beneficio da questa operazione: a fronte di una svalutazione dello yuan, è infatti possibile che si verifichi un trasferimento di capitali verso le valute più forti. A subire il danno peggiore, invece, sono i nostri esportatori (europei e americani), soprattutto nel settore del lusso: con una moneta svalutata i cinesi avranno meno possibilità di comprare prodotti esteri. E l’energia: la Cina, grande consumatore di petrolio avrà meno risorse per acquistarlo in dollari.

C’è anche un’altra ragione, incoffessabile, per cui la Banca Popolare Cinese ha deciso di svalutare: è rallentata la crescita delle esportazioni cinesi nei mercati esteri. L’industria manifatturiera ha registrato un rallentamento della sua crescita, con un +6% che è inferiore alle attese. E la vendita al dettaglio nei mercati stranieri è cresciuta del 10,5%, anche qui un dato inferiore ai precedenti e alle previsioni. “Merito” della persistente crisi europea che riduce il numero di clienti occidentali. Questa motivazione avvicina la decisione della Banca cinese a quella delle banche centrali italiane all’epoca delle “svalutazioni competitive”: si abbassa il valore per indurre gli stranieri a comprare di più. Ma questo rende meno affidabile e meno attendibile tutta l’operazione: per quanto tempo, ancora, la Banca Popolare Cinese accetterà un valore di mercato?

La crisi cinese, tra l’altro, non riguarda solo le esportazioni, ma anche il suo giovane (e ancora incerto) mercato finanziario. “Le istituzioni finanzierie cinesi sono ancora deboli – constata l’economista statunitense James Dorn, analista del Cato Institute – Mancano di regole certe sulla proprietà privata e sul governo della legge; dipendono in larga misura dalle manipolazioni dello Stato e sono lontane dalla realtà”. Queste debolezze sono emerse in tutta la loro drammaticità nel crollo della borsa di Shanghai, fra giugno e luglio scorsi. Un collasso che ha travolto tanti piccoli risparmiatori cinesi e ha indotto lo Stato a intervenire in modo ancor più pesante nel mercato, con metodi autoritari: vietando l’emissione di nuove azioni, vietando la vendita di azioni, acquistando titoli in massa, introducendo fondi pubblici per la “stabilizzazione”. Questi interventi non hanno fatto molto per impedire lo scoppio della “bolla di Shanghai”. Se ora la Banca Popolare Cinese accetta un bagno di realtà, svalutando lo yuan dopo aver abbassato i tassi di interesse, è anche per questo motivo.

La prima conclusione che si può trarre dalle convulsioni in estremo oriente, dunque, è che la Cina sia ancora un sistema molto fragile, più di quanto non appaia. Si è venuta a creare, specie in Europa, l’idea di una potenza economica destinata a crescere in continuazione e a superare l’economia statunitense nel breve-medio periodo. Quanto la crescita cinese sia stata sopravvalutata è però evidente in questi giorni. La Cina, lungi dall’aver adottato un sistema “autoritario in politica, ma liberista in economia”, ha dimostrato di essere autoritaria sia in politica che in economia. Il problema dell’autoritarismo economico, però, è che quasi mai la realtà del mercato coincide con la volontà dei pianificatori. Prima o poi la realtà presenta il conto. Quale conseguenza possa avere una severa crisi economica sulla società cinese è inimmaginabile. Per ora, anche qui, si è diffusa l’immagine di un monolite sociale più stabile delle società democratiche, grazie a un mix di autoritarismo comunista ed etica confuciana. Lungi da questi miti, la società cinese è in ebollizione da sempre, come dimostrano le decine di migliaia (e non è un errore di zeri) di proteste contadine che avvengono tutti gli anni. Finora è stata la crescita continua, la nuova versione del “Grande Balzo Avanti” voluta dai discendenti di Mao a tenere assieme il tutto. Ma se il sistema dovesse entrare in recessione?