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DIPLOMAZIA

Cina e cardinale Zen, le "strane" parole del Papa

Le parole di papa Francesco sul volo di ritorno dal Kazakistan suonano come un abbandono del cardinale Zen al suo destino per salvare il dialogo con la Cina. Ma rappresentano anche una impostazione del rapporto con la Cina molto politica e poco religiosa.

Editoriali 17_09_2022 English Español
Papa Francesco durante la conferenza stampa in aereo

Le parole pronunciate da papa Francesco sulla Cina e sul cardinale Joseph Zen nel volo di ritorno dal Kazakistan giovedì 15 settembre, da una parte non possono sorprendere chi segue le vicende dei rapporti tra Santa Sede e Cina. Eppure lasciano profondamente amareggiati, pensando al cardinale Zen che lunedì 19 settembre sarà processato a Hong Kong e trattato come un delinquente; e anche sconcertati, per i giudizi “politici” sulla situazione in Cina.

Ma andiamo con ordine. La domanda posta da Elise Allen, di Crux, era molto semplice: siccome il Papa in Kazakistan aveva tanto parlato di libertà religiosa, che dire della libertà religiosa in Cina, «soprattutto ora con il processo che sta andando avanti contro il cardinale Zen. Lei considera il processo contro di lui una violazione della libertà religiosa?». La risposta inizia con un discorso fumoso sulla difficoltà di capire la Cina, dei tempi lunghi con cui pensano i cinesi, e quindi dell’importanza del dialogo per capire e farsi capire. Al che si potrebbe subito obiettare: intanto il problema non sono i cinesi come popolo, ma il regime comunista cinese, il che è una differenza non da poco. E poi, proprio per questa difficoltà a capirli, perché non fidarsi allora di un vescovo come il cardinale Zen che, oltre ad essere cinese, i comunisti di Pechino li conosce bene? Perché non ascoltarlo?

Perché al Papa chiaramente non interessa, e il processo a Zen si capisce che è solo un impiccio che non vuole metta in discussione il dialogo con Pechino. Ecco le sue parole: «Qualificare la Cina come antidemocratica io non me la sento, perché è un Paese così complesso… sì è vero che ci sono cose che a noi sembrano non essere democratiche, quello è vero. Il cardinale Zen è un anziano che andrà a giudizio in questi giorni, credo. E lui dice quello che sente, e si vede che ci sono delle limitazioni lì. Più che qualificare, perché è difficile, e io non me la sento di qualificare, sono impressioni, cerco di appoggiare la via del dialogo».

«È un anziano» che «dice quello che sente»: insomma, pare di capire che il cardinale Zen è un vecchietto che non tiene la lingua a posto (curiosamente dalla trascrizione ufficiale di Vatican News è sparita la definizione «è un anziano», chissà perché). Certo, non ci sarà piena libertà lì, ma il problema è Zen che non vuole il dialogo. In altre parole: il vescovo emerito di Hong Kong è stato scaricato alla vigilia del processo, dopo che la sua situazione non è stata neanche menzionata o fatta oggetto di preghiera, come richiesto da alcuni, durante l’ultimo Concistoro. È una affermazione grave, che avrà ripercussioni anche per i cattolici in Cina, e profondamente ingiusta nei confronti del cardinale Zen.

Ma a questo punto è bene anche ricordare che il dialogo con la Cina non l’ha inventato papa Francesco, né a portarlo avanti ha cominciato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Con Giovanni Paolo II e il cardinale Sodano come segretario di Stato ci sono stati molti contatti e anzi, papa Francesco ha “recuperato” quello che anche ai tempi di Giovanni Paolo II guidava le missioni diplomatiche in Cina, monsignor Claudio Maria Celli.

E anche con papa Benedetto il dialogo è continuato. Entrambi avrebbero tanto desiderato andare in Cina. Ma con alcune differenze importanti: la prima è che ascoltavano i vescovi cinesi e altri esperti; la seconda è che avevano ben chiaro ciò che si poteva concedere e ciò su cui la Chiesa non poteva assolutamente cedere; infine, non si poteva dubitare sul fatto che i cattolici da prendere ad esempio erano quelli che subivano le persecuzioni pur di rimanere fedeli alla Chiesa e al Papa, e non quelli che accettavano di servire il Partito Comunista per mantenere una parvenza di culto cattolico. È il totalitarismo del regime cinese che non ha mai permesso di arrivare a un accordo, non la mancanza di volontà di dialogo da parte della Chiesa.

Ora invece l’impressione è che la Santa Sede, pur di proseguire con l’accordo segreto sulla nomina dei vescovi che sarà rinnovato a ottobre, abbia già concesso l’impossibile e sarebbe disposta a offrire anche il resto se solo il governo cinese lo volesse. Lo dimostra anche quello che (non) è accaduto in Kazakistan, secondo quanto riportato da Philip Pullella dell’agenzia Reuters: essendo il presidente cinese Xi Jinping nella capitale kazaka contemporaneamente, la Santa Sede aveva manifestato la disponibilità del Papa a un incontro, ma il governo cinese ha declinato l’offerta.

C’è però un’ultima questione che merita attenzione: il Papa non sa dire se in Cina ci sia la democrazia o no, il che già di per sé è un’affermazione assurda. Ma il problema vero è accettare o addirittura volere che la Chiesa si muova e pensi sul piano solo orizzontale, della politica. Il problema principale della Chiesa non può essere anzitutto se c’è o no la democrazia in un Paese, l’interesse principale dovrebbe essere la libertà della Chiesa, che è garanzia per la libertà di tutti. E il problema della Cina è proprio la mancanza di libertà per la Chiesa, sottoposta sempre più al controllo del Partito Comunista, grazie anche all’accordo segreto voluto dalla Santa Sede e pronto per essere rinnovato di altri due anni. Se il rapporto con uno Stato – in questo caso la Cina, ma vale per ogni altro Paese – si imposta in termini politici, alla fine si sacrifica la verità alla ragion politica. E paiono sagge e prudenti affermazioni che appaiono ridicole come quelle sulla democrazia in Cina.