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IOR

Chiudere lo Ior (ma non in nome della povertà)

Tra i temi che hanno preceduto l'ultimo Conclave, quello dell’Istituto Opere di Religione (Ior) ha avuto sicuramente un posto di rilievo. I ripetuti scandali degli ultimi decenni e la lentezza nell'adeguarsi alle norme di trasparenza sono diventate fonte di grave imbarazzo per la missione della Chiesa.

Ecclesia 22_03_2013
Ior

Tra i temi dei giorni che hanno preceduto il Conclave che ha portato all’elezione del card. Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco, quello dell’Istituto Opere di Religione (Ior) ha avuto sicuramente un posto di rilievo. E i richiami del neo Papa alla povertà hanno in qualche modo fatto pensare al fatto che la Chiesa possiede una banca, un simbolo in fondo della ricchezza. Peraltro negli ultimi mesi le vicende dell’Istituto, con la sfiducia al presidente Ettore Gotti Tedeschi nel maggio del 2012 e la nomina di Ernst von Freiberg pochi giorni prima della “sede vacante”, hanno lasciato spazio a polemiche e indiscrezioni con molte zone d’ombra e incontrollabili sospetti.

La storia dello Ior è purtroppo ricca di scandali e polemiche. Si può ricordare la dura protesta che nel 1972 l’allora Patriarca di Venezia, Albino Luciani (divenuto poi Papa Giovanni Paolo I), fece verso lo Ior per la vendita senza alcun preavviso al Banco Ambrosiano del pacchetto di maggioranza della Banca cattolica del Veneto, protesta che sfociò nella chiusura di tutti i conti della Diocesi verso quella che era considerata la banca di casa.
La fama dello Ior, è stata poi pesantemente compromessa all’inizio degli anni ’80 quando venne trascinato dall’allora presidente, l’arcivescovo Paul Marcinkus, in una serie di affari che coinvolgendo la massoneria, Licio Gelli e Michele Sindona, portarono al fallimento del Banco Ambrosiano guidato da Roberto Calvi.

Lo stesso Marcinkus fu condannato per bancarotta fraudolenta, condanna annullata dalla Cassazione perché, per il Concordato, gli enti centrali della Chiesa cattolica sono esenti da ingerenze da parte dello Stato italiano.
Lo Ior tuttavia riconobbe volontariamente le proprie responsabilità e pagò un contributo volontario di 406 milioni di dollari (mentre il debito delle società controllate dallo Ior era di 1,2 miliardi di dollari).

Ma perché la Chiesa cattolica si è sentita in dovere di creare una banca? Lo Ior nella forma attuale nasce nel 1942, quando papa Pio XII trasformò l’allora Amministrazione per le opere di religione, che gestiva il patrimonio finanziario del Vaticano (in gran parte derivante dai risarcimenti dello Stato italiano con i Patti Lateranensi), in una vera e propria banca dotata di personalità giuridica propria.
Lo Ior avrebbe dovuto essere semplicemente un gestore finanziario oltre che un intermediario per facilitare la movimentazioni di capitali destinati alle opere di religione e di carità. Ma il fatto di possedere un vasto patrimonio investito anche in azioni e di potersi muovere al di fuori delle regole e dei controlli dello Stato italiano hanno fatto dell’istituto negli anni del dopoguerra un vero e proprio centro di potere.

Negli ultimi anni lo Ior è stato di volta in volta accusato di favorire l’evasione fiscale attraverso la segretezza dei conti, di permettere il riciclaggio di denaro della malavita e della mafia, di destreggiarsi in speculazioni in Borsa, di finanziare occultamente movimenti antimarxisti.
Accuse prive di riscontri concreti (a parte qualche dichiarazione strumentale di pentiti di mafia), ma che comunque sono state rese almeno in parte credibili dalla lentezza con cui lo Ior si è adeguato alle sempre più stringenti normative internazionali sulla trasparenza bancaria.

A questo punto c’è veramente da chiedersi se abbia ancora un senso per il Vaticano possedere una banca. Non tanto per una scelta di povertà in senso francescano: anche per aiutare i poveri serve il denaro. Così come serve il denaro per finanziare le opere di carità, costruire chiese ed ospedali, gestire strutture complesse come quelle delle congregazioni religiose.
Ma il denaro, come insegnano tanti documenti pontifici, deve essere uno strumento e non un fine, uno strumento che va utilizzato bene come insegna la parabola dei talenti.

Ebbene lo Ior andrebbe chiuso o almeno profondamente riformato soprattutto perché è una banca inefficiente, limitata nella propria operatività, incapace di rispondere alle esigenze di una società moderna.
Lo dimostra, per esempio, il fatto che lo Ior ha perso clientela e fondi negli ultimi dieci anni, clientela e fondi che si sono indirizzati verso banche (per esempio in Italia Banca Prossima del gruppo IntesaSanpaolo così come Unicredit o il Credito Valtellinese) che hanno saputo offrire prodotti e servizi su misura per Enti ecclesiastici, Congregazioni religiose, Diocesi e parrocchie.

Si ha quasi l’impressione che l’attività dello Ior sia proseguita soprattutto per motivi non direttamente collegati all’efficienza dell’attività finanziaria, cioè perché in fondo è pur sempre la banca del Papa.
La Banca del Vaticano ha peraltro fatto significativi passi in avanti sul fronte della trasparenza. Nel 2011 è entrata in vigore la convenzione con l’Unione europea per l’adozione delle norme antiriciclaggio facendo cadere la prassi della segretezza dei conti.

Ma se lo Ior è una banca come le altre che senso ha rischiare, attraverso i sempre possibili errori degli uomini, di compromettere la stessa immagine del Santo Padre e della Chiesa?
Il denaro è una realtà talmente utile e necessaria, anche e soprattutto per fare il bene, che è meglio che se ne occupino i banchieri, i finanzieri, gli esperti. Meglio se guidati dalla professionalità e animati da rette intenzioni.