Chi non vuole riqualificare la Rai
Renzi propone una razionalizzazione della Rai, la tv pubblica che conta 11.500 dipendenti, più di tutti quelli delle tv private messe assieme. Una ristrutturazione è necessaria, ma si scontra con una serie di interessi consolidati.
Cgil, Uil e sigle sindacali minori tengono comunque duro. L’11 giugno sciopereranno contro la richiesta di tagli in Rai annunciata dal governo Renzi, che ha proposto di mettere sul mercato una quota della controllata Rai Way, che si occupa dei ripetitori, e di razionalizzare le 22 sedi regionali, considerate troppo onerose. In queste settimane nella tv pubblica si è aperto un salutare dibattito sul ruolo del servizio pubblico, che ha condotto alcune redazioni e alcune rappresentanze sindacali a rinunciare all’agitazione, anche come prova di disponibilità nei confronti dell’esecutivo e al fine di non ingaggiare con il premier un lacerante e infruttuoso braccio di ferro.
La situazione è nota: i dipendenti Rai sono 11.500, tra dirigenti, giornalisti, impiegati, tecnici, coristi e orchestrali, senza contare la pletora di collaboratori esterni (migliaia), spesso lautamente pagati per interventi spot. Tutti i dipendenti di Mediaset, Sky e Telecom Italia Media (La 7), sommati tra di loro, non raggiungono quella cifra. Basta la funzione di servizio pubblico della Rai a giustificare questi organici, visto che per legge anche le altre tv svolgono la stessa funzione, pur con proprietà nelle mani di privati? È ammissibile che il costo del lavoro nella tv pubblica raggiunga il 40% di tutti i ricavi, considerato che gran parte delle produzioni viene affidata all’esterno? A quale modello di business si ispira un’azienda che acquista programmi e format da soggetti esterni (costo annuale circa mezzo miliardo) e che ha accumulato perdite pari a 400 milioni negli ultimi cinque anni? Crollo della pubblicità e stazionarietà della percentuale di evasione del pagamento del canone (un italiano su tre non lo paga) hanno reso la Rai un pessimo investimento per lo Stato. Da anni anche la Corte dei Conti ha infilato il dito nella piaga di tale cattiva e antieconomica gestione. E il governo Renzi, nella cornice di una opportuna spending review, sta decidendo di correre ai ripari per rilanciare la competitività del servizio pubblico radiotelevisivo, operando su sprechi, disservizi e condizionamenti della politica.
La verità è che la Rai andrebbe rivoltata come un calzino e, come tutte le aziende pubbliche, necessita di profondi interventi di ristrutturazione e risanamento. Non ci sono elezioni vicine e il premier ha colto il momento propizio per affrontare a muso duro i nemici di ogni cambiamento e per riuscire laddove tutti i governi precedenti hanno fallito: introdurre criteri di qualità ed efficienza nella spesa e ridimensionare l’incidenza che la lottizzazione (spesso non meritocratica) ha avuto per oltre mezzo secolo nella tv di Stato.
Ci sono forti resistenze nell’ambiente Rai, abituato alle “vacche grasse” e all’assenza di meccanismi di rendicontazione del lavoro svolto. Peraltro il governo non ha affatto chiesto all’azienda di rinunciare ogni anno a 150 milioni di risorse pubbliche, compensandoli con riduzioni di costo o con un incremento dei fatturati pubblicitari. Il contributo alla Rai è stato chiesto una tantum, attraverso la cessione di un asset patrimoniale, la controllata Rai Way, o meglio di una sua quota minoritaria.
E allora dov’è lo scandalo? Perché tanto astio? Il caso è singolare. Da una parte in Rai serpeggia un renzismo convenientistico, con una corsa sfrenata di giornalisti e dirigenti a riciclarsi per compiacere il nuovo leader del centrosinistra; dall’altra parte si manifestano chiari segnali di insofferenza verso un premier che ostenta quasi disprezzo verso l’attuale conduzione dell’azienda radiotelevisiva.
Ma il nodo principale da sciogliere è quello della governance, anche in vista del rinnovo dell’attuale concessione Rai, in scadenza fra due anni esatti e che avrà validità fino al 2026. Occorre superare un cda nominato da Governo e Parlamento secondo i rapporti di forza del momento e che pregiudica alla radice l’imprescindibile requisito dell’indipendenza della tv di Stato. Si è parlato più volte dell’idea di creare un soggetto terzo, magari una Fondazione neutrale, cui affidare le azioni della Rai, al fine di recidere il cordone ombelicale con la politica, ma finora non se n’è fatto nulla.
Il canone Rai, è vero, è il più basso d’Europa, ma è altrettanto innegabile che la qualità della programmazione della tv pubblica italiana è scadente e induce i telespettatori a opzionare altri canali, anche a pagamento, o a dedicare il proprio tempo ad altri media. Non sarà mai superfluo richiamare il modello inglese della Bbc, senza spot pubblicitari, con un canone congelato fino al rinnovo della concessione ma con un coinvolgimento diretto e maturo del Comitato degli utenti, organismo che ha voce in capitolo anche sulla programmazione e sull’individuazione e applicazione di una serie di standard qualitativi rispetto alla messa in onda di alcuni programmi. In Italia la Rai è in affanno sull’aggiornamento tecnologico e sulla coltivazione di una costante interattività col pubblico ed è in difetto per ciò che attiene al rispetto di alcuni punti qualificanti del Contratto di servizio e di lodevoli principi contenuti in Codici sottoscritti con l’Ordine dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e le altre tv, ad esempio il Codice di autoregolamentazione sui processi mediatici (maggio 2009) o quello del 2002 sulla tutela dei minori.
Di fronte a un quadro del genere, uno sciopero minacciosamente proclamato e, per fortuna, ampiamente abortito, non rappresenta di certo un buon viatico per avviare una riforma non più procrastinabile della tv pubblica che le restituisca credibilità e che smantelli l’apparato di privilegi e sprechi che fin qui le ha impedito di mettere a frutto le sue energie migliori.