Chi gioca sul "razzismo" delle curve
Lungi da noi giustificare o minimizzare certi comportamenti negli stadi di calcio, ma abbiamo l’impressione che la vicenda di Koulibaly, fischiato dai tifosi interisti, sia tornata buona nel contesto di una narrazione dell’Italia come paese razzista, soprattutto da quando c’è un certo ministro dell’Interno.
In questi giorni si è molto polemizzato con il governo a motivo dell’abolizione degli sconti fiscali per le associazioni non profit. «Se anche ci sono delle associazioni che fanno “le furbe” – si è argomentato – non è giusto colpirle tutte indistintamente». Giusto, la responsabilità è personale, non collettiva. Non si può colpire una intera categoria perché qualche esponente sbaglia. Ma allora perché nessuno chiede che sia applicato lo stesso principio ai tifosi del calcio? E perché si attacca il ministro dell’Interno Matteo Salvini quando sostiene che razzismo e violenza non si combattono chiudendo gli stadi?
I fatti sono noti: per i buu “razzisti” della curva dell’Inter contro il giocatore del Napoli Kalidou Koulibaly durante la partita Inter-Napoli del 26 dicembre scorso, l’Inter sarà costretta a giocare due partite in casa a porte chiuse: stadio vietato a tutti i tifosi per la responsabilità di un solo settore: centinaia, forse qualche migliaio, di ultras rispetto agli oltre 60mila presenti sugli spalti. C’è chi addirittura voleva imporre lo stop all’intero campionato.
Perché dunque punire tutti i tifosi? «Per dare un segnale forte», per dare una lezione. È un principio pericoloso, che sostituisce alla giustizia basata sul diritto l’arbitrio dettato dal sentimento dominante, o perlomeno il sentimento dettato dai media e da chi li controlla. Non a caso la vicenda dei buu a Koulibaly ha predominato nei giornali sull’altro caso di cronaca legato a Inter-Napoli – oggettivamente più grave -, ovvero la battaglia andata in scena prima della partita nei dintorni di San Siro, quando gruppi organizzati di ultras dell’Inter, del Varese e del Nizza hanno assaltato una carovana di tifosi napoletani, peraltro già pronti a rispondere per le rime: un tifoso dell’Inter ci ha rimesso la vita, sotto le ruote di un Suv.
Lungi da noi giustificare o minimizzare certi comportamenti delle curve, ma abbiamo l’impressione che la vicenda di Koulibaly sia tornata buona nel contesto di una narrazione dell’Italia come paese razzista, soprattutto da quando c’è un certo ministro dell’Interno. Diciamo che è anche più di un’impressione, leggendo certi editoriali, tra i quali va segnalato per eccesso di delirio almeno quello di Francesco Merlo su Repubblica, che arriva ad accostare Koulibaly al sindaco di Riace Mimmo Lucano, praticamente proclamati sul campo martiri gemelli, caduti vittima di questa ondata razzista salviniana. Ed è più di un’impressione anche considerando le decisioni del giudice sportivo: lo scorso 2 ottobre, Juventus-Napoli, stessi cori contro i napoletani e buu contro Koulibaly erano costati alla società bianconera, la chiusura per un turno della sola curva degli ultras e una ammenda. Come giustificare dal punto di vista giuridico una pena così diversa per lo stesso identico misfatto contro la stessa squadra e lo stesso giocatore?
Solo il clima politico che si è creato può spiegarlo, un clima politico che tende a vedere razzismo ovunque, usando il razzismo come arma per colpire l’avversario politico. Non che non esistano anche episodi di razzismo vero e proprio intorno al calcio così come nella società, ma se tutto diventa razzismo niente lo è più. Soprattutto quando parliamo delle curve negli stadi, forse la categoria del tribalismo sarebbe in generale più appropriata. Se si è razzisti, lo si è contro ogni diverso, contro ogni nero o giallo o olivastro che sia. Allora perché gli stessi tifosi interisti che ululavano contro Koulibaly non hanno fischiato l’ingresso in campo per l’Inter nel secondo tempo del nero Keita al posto del bianco Perisic? Non dovrebbe essere forse un affronto togliere un “bianco” per mettere un “nero”? E invece no: dalla stessa curva interista solo applausi, al “bianco” e al “nero”. Certo, perché quello che conta è che il “nero” Keita fa parte della tribù Inter, mentre Koulibaly è della tribù “nemica”.
Poi, qualcuno dei grandi moralizzatori ci dovrebbe spiegare perché ci si straccia le vesti se un giocatore nero viene fischiato, mentre ad esempio i fischi, le urla e gli insulti che regolarmente colpiscono gli arbitri (e non solo) – e che includono regolarmente anche giudizi drastici sulla moralità delle donne nelle loro famiglie fino al terzo grado di parentela – passano inosservati.
La realtà è che c’è un tifo passionale, acceso, che comprende anche gli sfottò per gli avversari, che è parte del gioco, ed è anche il bello. Poi c’è evidentemente una ingiustificabile ignoranza e anche un’imbecillità in parte del tifo, e a dirla tutta c’è anche una inaccettabile tolleranza delle società di calcio e delle autorità verso le frange più violente. Ma pretendere di bollare tutto come razzismo per evidenti scopi politici non può che peggiorare il problema.